sabato 2 agosto 2025

Mele, pele e pompelmi, o sul genocidio a Gaza



Un'amica molto vicina al popolo di Israele, non ai suoi governanti, per quanto in una democrazia la distinzione sia sempre sfumata (se Giorgia Meloni decidesse di invadere la Polonia, come italiano mi sentirei chiamato in causa), questa amica scrive che le numerose proteste filo palestinesi replicano la politica dello struzzo, e sono un modo per non guardare alle persecuzioni subite dal popolo ebraico nella storia, oppure a ciò che avviene in Africa – in questo caso però vorrei maggiore precisione nelle accuse –, o ancora all'attacco di Hamas dell'sette ottobre, la condizione delle donne nei paesi islamici etc. Perché tutti a criticare Israele e non i suddetti problemi, saranno mica antisemiti...

Io non sono mica tanto d'accordo con la mia amica, che resta amica per quanto il suo ragionamento mi ricorda chi, pescato a rubare una mela, risponda: Sì, ma Pierino ieri ha rubato due pere. Intanto, come dice il proverbio, stiamo mescolando mele con pere, e poi ieri non è oggi, e non so quanto sia pertinente ricordare la persecuzione dei marrani in Spagna, avvenuta oltre sei secoli fa. Ma l'argomento davvero dirimente a me appare il parallelo con le manifestazioni di protesta avvenute negli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam, o più precisamente nel periodo del diretto coinvolgimento militare americano, e cioè tra il 1964 e il 1975. Anni in cui nel mondo contemporaneamente si verificano:

1) guerra civile in Laos; 2) guerra civile in Cambogia; 3) guerra indo-pakistana; 4) guerra di liberazione del Bangladesh; 5) guerra civile in Nigeria; 6) genocidio in Burundi; 7) guerra di indipendenza delle colonie portoghesi; 8) guerra dei sei giorni e del Kippur; 9) settembre nero in Giordania; 10) colpo di stato di Pinochet; 11) strategia della tensione e stragi in Italia.

Non poco per un solo decennio, e probabilmente ho scordato qualcosa. Eppure le manifestazioni americane si concentravano sul solo Vietnam – anche loro facevano gli struzzi?

Sì e no. Semplicemente, quella guerra li coinvolgeva, si sentivano a un tempo vittime e responsabili, così come l'Italia è coinvolta dal sistematico genocidio messo in opera dall'IDF nella striscia di Gaza, già che con Israele manteniamo solidi rapporti diplomatici e militari, e come tutto il blocco dei paesi Nato lo consideriamo un presidio di democrazia, civiltà e stabilità politica in Medio Oriente.

Un momento, rileggiamo l'ultima frase: presidio di democrazia, civiltà e stabilità politica in Medio Oriente...

No, decisamente non ci siamo, e con buona pace della mia amica io mi auguro che le manifestazioni contro il genocidio, ripeto questo termine ora finalmente utilizzato anche dall'ebreo, israeliano e sionista David Grossman, mi auguro che le manifestazioni aumentino, non diminuiscano o si spostino verso altri obiettivi, pur meritevoli di attenzione.

Inoltre, sarebbe opportuno che lo Stato italiano si adoperasse per contrastare il suo alleato mediorientale, ad esempio sospendendo questo vincolo e istituendo delle sanzioni economiche – come boicottiamo le mostre di felini russi e i convegni su Dostoevskij, possiamo rinunciare a qualche bel pompelmo israeliano –, iniziative da condividere con tutta l'eurozona. Altrimenti saremo anche noi corresponsabili. Poi ci sarà tempo per scendere in piazza contro le due pere rubate da Pierino, ma adesso occupiamoci dell'enorme mela scagliata da Israele contro il popolo palestinese, con il nostro tacito ma non meno grave contributo.

venerdì 1 agosto 2025

Un corpo e un'anima


Mi ricordo che Roma faceva da discrimine spaziale, oltre era veramente Sud e, al Sud, quando in autostrada si superava un altro veicolo targato Sondrio, o più spesso si veniva superati – nonostante l’auto di papà fosse una 128 nella versione Rally, la roulotte al seguito ne limitava la velocità di marcia –, il primo dei due conducenti ad accorgersi della coincidenza cominciava a suonare il clacson, e anche io e mamma eravamo pervasi da una contagiosa eccitazione, ci sporgevamo dal finestrino, CIAO, CIAO! gridavamo accompagnando i saluti con movimenti ampi delle braccia, lo stesso facevano i nostri conterranei valtellinesi in un sentimento primordiale di appartenenza mai più provato in seguito, mentre le colline arse delle Murge, trapuntate dalle rotoballe di fieno, scorrevano in una lontananza sfocata dall'arsura, negli Autogrill a ponte le caciotte pendevano dal soffitto come candidi pipistrelli, i fumetti di Lando ti dicevano che erano destinati ai camionisti, ci si doveva accontentare di quelli di Nonna Abelarda e un bicchiere d'acqua con lo sciroppo di tamarindo, intanto l'auto targata Sondrio era già un puntino scuro all'orizzonte, prima di scomparire una radiolina a transistor appesa allo specchietto retrovisore diffondeva la voce di Wess e Dori Ghezzi, e non ci lasceremo mai cantavano sovrapponendosi nel refrain, anche stasera noi siamo più che mai, un corpo e un'anima, un corpo e un’anima, un corpo e un’anima…

mercoledì 30 luglio 2025

Granoturco (mi ricordo 38)


Mi ricordo che quando l'estate raggiungeva il suo culmine si andava nel granoturco per giocare a nascondino. La nonna non voleva – si rovina il fogliame diceva, ma più che altro temeva che le fronde affilate ci graffiassero gli occhi – mentre il nonno rideva e lasciava fare. Un gioco insensato a ben vedere: bastava allontanarsi di qualche passo dal campo e, dal movimento delle cime, era possibile individuare la posizione dell'altro. Anche perché eravamo solamente in due, io e Stefano, il figlio dei vicini di fattoria. Ma il numero per noi non rappresentava un problema, ci lanciavamo a capofitto tra i fusti e, a quel punto, non era più chiaro chi fosse il cacciatore e chi la preda, vagavamo in un labirinto verde con l'eccitazione e il timore di essere scoperti. Quando accadeva, al sussulto iniziale accompagnato dalle grida ECCOTI VISTO TANA!, sopravveniva un po' di delusione, e in fila indiana prendevamo la direzione del sole, unico riferimento nella fitta omogeneità del ventre vegetale che altrimenti ci avrebbe digerito; l'unica variabile cromatica era costituita dagli stimmi delle pannocchie, infilati in tasca sarebbero serviti per farci baffi e pizzetto da Buffalo Bill. Va aggiunto che Stefano arrivava solo a pomeriggio inoltrato, si presentava a bordo di una Graziella piena di adesivi all'ora in cui il nonno afferrava i secchielli di latta per andare a mungere le mucche, e così il sole ci indicava il ponente dove si trovava il letamaio, poi veniva una roggia e quindi il prato già falciato un paio di volte, dove ci accucciavamo a pensare quale avrebbe potuto essere il nuovo sfogo di energie, stare seduti ci era già venuto a noia. Di solito si trattava della ricerca dei giornaletti porno abbandonati nella boschina, altrimenti detta camporella, a poche centinaia di metri di distanza. In fondo una nuova quest: corpi che si incorporano, ma inanimati, spalmati sulla carta impastata da pioggia, terra e umori organici sconosciuti, e corpi vivi – i nostri – che non sanno cosa fare uno dell'altro. È chiaro che mancava una donna. Una bambina meglio, poi ragazza, signorina, mamma e così via. Questa è la vita ti dicono, ma lo realizzi solamente in seguito. All'inizio lo capisci soltanto. Quando al sapere si accompagna il sentire, è perché è già stato mietuto il granoturco, e il gioco perde un po' di interesse. Così si aspetta in silenzio la sera per coricarsi, mentre con polpastrelli duri e avvizziti la nonna carezza le sfere ambra del rosario.

domenica 27 luglio 2025

Waiting for the Miracle (mi ricordo 37)

Mi ricordo di un pappagallo a cui si doveva fare pronunciare la parola Portobello. Chi ci fosse riuscito avrebbe vinto un mucchio di soldi, c'era da scommetterci, lo assicurava un presentatore televisivo dall'aspetto un po' dimesso, ma che trasmetteva fiducia. Non si capisce perché ci misero tanto tempo per credergli, si trattava di una brutta storia – sul fatto che Portobello, così si chiamava il pappagallo, potesse dire il suo nome come un cristiano, sì; sul fatto che il presentatore non spacciasse cocaina, no... Mah.

Era infatti la prima eventualità a essere incredibile, da non credere proprio e cambiare canale sul nuovo televisore Grundig, finalmente a colori. Aspettarsi da un pappagallo e nemmeno di specie cinerina, la più loquace, che a comando articolasse un termine di quattro sillabe con la tremenda accoppiata di erre con ti, come mirto, carte, Bertè, nel senso di Loredana con le sue minigonne mozzafiato. Tutto ciò nel tempo di un minuto e sotto i riflettori di uno studio televisivo e, se ancora non bastasse, incalzati da uno sconosciuto: ma dai... qualsiasi ornitologo avrebbe potuto spiegare che si trattava di velleità.

Eppure, dopo cinque anni di tentativi miseramente falliti ci riuscì l'attrice Paola Borboni, era il 1 gennaio del 1982. Non ci avevo mai creduto fino in fondo nemmeno quando facevo il chierichetto – tutti quegli effetti speciali di Gesù, Lazzaro che si alza dalla tomba alla maniera del peggiore film splatter – ma con Portobello che a Portobello dice Portobello, non esistevano più dubbi: i miracoli esistono.

Da qui l'abitudine di guardare il cielo al risveglio, a cui sussurro Portobello. Finora non mi ha ancora risposto, ma sono convinto che, prima o poi, udirò una voce profonda, da anziano con all'attivo un po' troppe Nazionali senza filtro. La voce ci mette un po' a precisarsi, è il confuso balbettio del paziente che sta uscendo dall'anestesia; ma in seguito comincia ad articolare: Po... po... porbelo. Ho capito bene?! Questa volta lo scandisce chiaro e forte: Por-to-bel-lo, e poi ancora dopo una pausa, Portobello, Portobello, Portobello... a quel punto ci avrà preso gusto e sarà difficile fermarla, come avvenne con Paola Borboni. E io e la voce saremo una bellissima unica cosa.

(Dopo avere letto il testo, si consiglia l'ascolto di questa canzone.)

giovedì 24 luglio 2025

Oplà (mi ricordo 36)

 


Mi ricordo che bisognava risalire una scaletta ripidissima, e prima di imboccare una seconda scala più ampia e meno scoscesa e con i gradini ricoperti da moquette, a un livello intermedio, dunque, tra il ventre del traghetto dove avevamo lasciato la 125 Rally di papà – Avanti, avanti ancora un po’… ferma! strillava un uomo con una balena azzurra stampata sulla t-shirt – e il salone passeggeri con le poltroncine amaranto e un piccolo bar (quando il mare era mosso però restava chiuso), a quel punto si apriva un vano della dimensione di due cabine del telefono, con all’interno una panca di legno e sbarre di metallo a sigillarne lo spazio. Lì venivano fatti sedere i detenuti diretti a Porto Azzurro.

Io e mia cugina Alessandra, durante la navigazione da Piombino a Portoferraio, fingevamo di andare in bagno per scendere a guardare quei volti temuti, fuori dalla gabbia sostavano due carabinieri sempre in piedi. Ma subito scappavamo spaventati, come se avessimo visto il diavolo. Non ci era del tutto chiara la differenza tra un carcere normale e un penitenziario, ma avevamo inteso che c'entrava in qualche modo la morte: quegli uomini avevano certamente intrallazzato con la morte (sparando, strozzando, accoltellando), e ciò bastava per trasformare il nostro viaggio con in valigia le biglie da far rotolare sulla spiaggia, ogni biglia di plastica conteneva la foto di un famoso ciclista, tutti volevano Gimondi ma Eddy Merckx era nettamente più forte, lo trasformava in un film del terrore.

Quando si iniziavano a intravedere le rocce di Capo Vita e l’Isola dei Topi, il traghetto rallentava fino a fermarsi – Dove sono i freni delle barche? chiedevo allo zio, che non mi ricordo cosa rispondesse – e un’altra imbarcazione ma più piccola, molto più piccola, era simile ai barconi dei pescatori, accostava. Da una porticina laterale i carcerati venivano fatti montare su quella, ad attenderli nuove guardie con una divisa grigia che sembrava da postino.

Incollati alle battagliole del ponte di coperta osservavamo frementi l’operazione, di solito i carcerati erano al massimo due. I carabinieri li tenevano per mano come faceva il nonno Pinin quando ci portava alle giostre, mentre con l’altra mano si protendevano verso i postini, prima uno e poi il complice, pensavamo, di qualche malefatta. Eppure quel
 gesto possedeva un'intimità che strideva con tutte le cose brutte che la tivù diceva sui banditi: più che diavoli, sembravano ora dei poveri diavoli.

Ma a un certo punto, oplà, con un saltello ecco il primo detenuto superare il pericoloso corridoio aperto tra le due imbarcazioni, e così il carabiniere che gli teneva la mano lo lasciava andare, facendo sospettare che la separazione gli dispiacesse almeno un po'. Quando anche il secondo aveva completato il trasbordo, i pistoni del motore diesel aumentavano il loro ritmo, e il barcone si avviava borbottando in direzione della fortezza di Porto Azzurro. Il traghetto aspettava che fosse a sufficiente distanza, poi ripartivamo anche noi.

Non ne ho mai riparlato con Alessandra, ma vorrei chiederle se anche lei ogni tanto ci ripensa. A me è venuto un dubbio. E se ciò che spiavamo con morbosa apprensione c'entrasse davvero qualcosa con la morte, una morte senza diavoli e carabinieri e postini... Semplicemente, morire è lasciare un’imbarcazione grande per salire su una piccola, tanto piccola da apparire invisibile nel vasto mare, lasciare una mano e afferrare una mano che ci attende amichevole, per condurci a una nuova prigione. Ma poi non farà lo scherzetto di ritrarla, facendoci cascare nell’acqua gelida?

domenica 20 luglio 2025

Milano, o sulla differenza tra progressismo e sviluppismo

Non so se Sala abbia responsabilità penali nell'inchiesta milanese sul mattone, ma se mi dovessi affidare al naso direi di no. La responsabilità politica era però manifesta da anni, e coincide con l'equivoco inaugurato in Italia da Berlusconi: quello che la politica, appunto, sia un equivalente dei processi produttivi, e dunque l'abilità nel gestire un'azienda possa essere traslata alla cosa pubblica.

Non è così per molte ragioni, tra le quali una che venne introdotta da Pasolini in un articolo del 1973; ma il Corriere della Sera non pubblicò quel testo, che trovò spazio sugli Scritti corsari solo due anni dopo. Progresso e sviluppo, scriveva il poeta di Casarsa, sono termini alternativi e potenzialmente antitetici. Il progresso non è un concetto indipendente come lo sviluppo – data una condizione di partenza, senza variarne la natura può essere sviluppata fino ai suoi limiti fisiologici – ma presuppone una cornice di senso discrezionale, un mutare qualitativo oltre che quantitativo. In parole semplici: ci si deve prima accordare su quale sia il verso in cui progredire, non esiste progresso in sé, la tautologia non si applica a questa nozione.

La politica ha dunque quale suo specifico oggetto il progresso, non lo sviluppo, e prevede due momenti da porre in rigorosa sequenza: la determinazione collettiva di tale verso, quindi la sua applicazione. Essere efficienti concerne il solo secondo punto, ed è certamente un merito. Ma a patto che vi sia stato accordo e trasparenza nella prima fase, ossia e di nuovo la selezione politica degli obiettivi. Viceversa il progresso può tradursi in regresso.

A volte la dialettica democratica rappresenta una zavorra per l'efficienza: si vorrebbe fare di più, rimboccarsi le maniche e darci dentro per realizzare ciò che ci appare scontato (case sempre più alte e rilucenti di specchi, ad esempio), ma che a ben vedere scontato non è. Bisogna negoziare le scelte, chiarire la ricaduta sociale e ambientale, precisare i valori della comunità di riferimento ancora prima di corrispondervi, infine dare spazio ai dubbi di un'inevitabile frangia di scettici o comuni guastafeste, altrimenti detti minoranza. E così un buon politico deve sapere anche premere sul freno, non solo sull'acceleratore.

Quale sarà l'esito dell'inchiesta – ovviamente, auguriamo a Sala di uscirne indenne –, non possiamo evitare di registrare che il suo piede era pesante, come viene detto dei piloti automobilistici che molto pigiano sull'acceleratore. Una disposizione affrettata alla guida sufficiente a ridimensionarne la figura: da politico progressista, ad amministratore sviluppista.

Se avesse avuto maggiore consuetudine con il freno avrebbe con probabilità fatto di meno, quando in quel fare sono incluse anche opere di obiettivo interesse pubblico; e ciò glielo riconosciamo volentieri, come si dice: chi non fa, non sbaglia. Ma se non altro adesso conosceremo la direzione verso cui stava correndo Milano, che somiglia sempre più a un vecchio film di Andrej Končalovskij, A trenta secondi dalla fine. Dove un treno senza più guida procede a tutta forza in un nulla alaskano di conifere e neve.

sabato 19 luglio 2025

Beatrice

 


Beatrice. Non so chi fosse, nemmeno in una città piccola come questa l'avevo mai incontrata; ma poi ho guardato meglio e ho visto che viveva a Ponte, un paese a una decina di chilometri da Sondrio noto per le sue belle mele rosse. Portando il cane a fare pipì ai giardinetti di via Parolo, ho dato la solita scorsa al tabellone di metallo su cui vengono affissi i manifesti funebri. Da ragazzo li ignoravo sentendomi a mia volta ignorato. Morire, mi dicevo, è una cosa da vecchi, ci penserò quando avrò un orologio a cipolla e centrini all'uncinetto sul comò.

Nessun cognome, adesso è una cosa che si usa, il solo nome di battesimo produce maggiore intimità, specie se ti chiami Beatrice, come Beatrice Portinari. I commentari danteschi riportano che è morta a Firenze l'8 giugno del 1290, l'unico dubbio è se allora fosse nel ventiquattresimo o venticinquesimo anno della sua breve vita.

La ragazza della foto sembra avere più o meno la stessa età, almeno al tempo dello scatto. Sorride, un filo di trucco o forse niente, quello che si dice un viso acqua e sapone. È leggermente incongruo con il minimo tatuaggio amatoriale sull'avambraccio destro, una stella a cinque punte. Il cagnetto bianco che abbraccia dovrebbe essere di razza maltese. Reclina il capo fino a toccarne il pelo, l'animale le si affida fiducioso, una struttura a piramide dell'immagine che ricalca i dipinti rinascimentali della Madonna con bambino. E poi la frase virgolettata, "Il tuo sorriso era luce per chi ti amava, e ora illumina il cielo che ti custodisce."

Ho fatto una ricerca su internet, ma non viene riferita a nessuno in particolare: è semplicemente una frase di circostanza, probabilmente un'idea dell'agente delle pompe funebri. Sono rimasto colpito più da quello che sta sotto: "Con infinito amore, il tuo papà."

Sul fatto che non siano menzionati fratelli, beh, potrebbe essere figlia unica, ma perché l'infinito amore è solo quello del tuo papà, e non anche della tua mamma?

Forse è morta a sua volta, l'uomo è vedovo, cosa che rende il commiato ancora più straziante. O magari sono separati, e in un rapporto così logoro da non volere accostare il proprio nome alla madre della figlia; nemmeno in un momento in cui il cratere della scomparsa, di norma, rende le beghe di superficie tanto piccole. Ma in tal caso sarebbe una vicenda ancora più dolorosa, ci sto pensando da tutto il giorno.

Da qualche anno va così, mi commuovono i manifesti funebri degli sconosciuti. Da buon ipocondriaco, formulo ipotesi sulla causa del decesso, che si allargano e trasformano in narrazioni ipotetiche di un'intera esistenza 
 in fondo, è il principio della fiction biografica. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul perché la letteratura di pura finzione sta perdendo colpi, si guardi bene la foto di Beatrice, ci costruisca attorno una storia.

Una storia che includa la maglietta grigia, i lunghi capelli castani, il cagnetto maltese  adesso chi lo terrà? Lo immagino fermo davanti alla porta di casa ad aspettare la padroncina, come in quel film con Richard Gere  e soprattutto il suo papà. Possiede la stessa funzione narrativa di Dante nella Commedia: colui a cui viene consegnato il ricordo di una gioia solo sfiorata, è troppo grande per una vita, e così, nella morte, diventa il dolore e la richiesta di senso di tutti. Eh già, perché anch'io da oggi mi sento privato di un bene, e non attenua ma scava nella ferita il fatto che non sapessi di possederlo. Beatrice.

venerdì 18 luglio 2025

Tanti like, poco io

Pensavo a questa cosa: al bambino, al cane, a chiunque venga detto bravo fa sempre piacere, e chi frequenta i social non fa eccezione: i like sono un premio come il biscottino al cane di cui sopra, mai sputare nel piatto in cui ci si sbrana.

Però, pensavo sempre, c'è un'altra variabile da tenere in conto, che introduce Lacan con la consueta tortuosa lucidità. Ciò che ci fa davvero piacere, semplifico, è l'approvazione di chi anche noi approviamo, la stima di chi stimiamo.

Mescolando gli orientamenti psicoanalitici potremmo dire che questa approvazione ci definisce, ci individualizza  la medaglia è al valore di ciò che si precisa nel mio gesto, e quel qualcosa sono proprio io, l'altro mi fa da specchio. E così diventa un bravo Guido, brava Cinzia, bravo Ermenegildo!

Mi chiedo dunque quale possa essere il piacere nell'ottenere centinaia di like attraverso l'immagine di un gattino, o, nel caso di una giovane donna, nel mostrarsi con la camicetta un po' più sbottonata del solito  tu sei il tuo gattino, oppure coincidi con il seno che si intravede con finta sbadataggine? Oh cacchio, mi è scappato un bottone...

Io penso di sì. Penso che i social, per molte persone, arriverei ad azzardare la maggioranza, si siano trasformati in una diluizione dell'identità personale, al punto da evocare un tutto indistinto e così solo quantificabile. Titolava un suo libro con grande preveggenza Guénon: Il regno della quantità e i segni dei tempi.

mercoledì 16 luglio 2025

Esame orale sì, esame orale no, proviamo a fare un po’ di chiarezza

Sugli studenti che si rifiutano di sostenere l’orale all’esame di maturità perché, a loro dire, non sono stati ascoltati a sufficienza dai professori – ascoltati come esseri umani e non come semplici computatori di dati, abomasi da cui la notte rifluiscono le conoscenze brucate di giorno –, sulla questione ho più dubbi che certezze. Mi sembra cioè un problema complesso e sfumato.

Ma dovendo trovare una soluzione, io la vedo così: se parliamo di scuola dell’obbligo e, in parte, anche di liceo, trovo che gli studenti recalcitranti abbiano dalla loro molte ragioni, se non una medaglia d'oro nella corsa alla Verità che mi sembra impossibile assegnare. L’educazione primaria serve infatti a trasmettere un’appartenenza, prima ancora che a ingozzare gli studenti di nozioni. E l’appartenenza è per sua natura dialettica: le generazioni precedenti trasferiscono alle successive il testimone di ciò che hanno selezionato come valido (nel senso proprio del valore, che si pone a garante dello scambio: l'Iliade, la Divina Commedia, la tavola periodica degli elementi etc.), e quest’ultime replicano con le loro richieste di senso, l’idea di mondo che si vanno facendo.

Non è un pensiero utopistico o fricchettone, prevengo le obiezioni. Molto concretamente un giovane potrebbe chiedere al professore: Ok, Lei mi parla di Omero, Dante, Mendeleev, ma poi io le racconto dei miei problemi con le ragazze o con i ragazzi o con entrambi, e vediamo assieme se i suoi amici possono aiutarmi, e nel caso in che modo – Alain de Botton andava in questa direzione quando ha scritto Come Proust può cambiarvi la vita, oppure Robin Williams nell’Attimo fuggente.

Ma quando l'insegnamento sia volto a tradursi in pratiche professionali, allo scambio vitale tra esseri umani – è il principio stesso di ogni civiltà – deve subentrare una diversa concezione dell’insegnamento basata sul merito; un concetto 
controverso non a caso attribuito alla cultura conservatrice, già che presuppone un’asimmetria costitutiva tra soggetti e fondazione stabile dei saperi, al punto da essere quantificata in voto. Da una prospettiva filosofica sono io il primo a riconoscere che questa pedagogia corrisponda a una colata di cemento sulla mobilità del pensiero, in cui la domanda, socraticamente, deve prevalere sulla risposta. Peccato che non sempre si possa fare filosofia, e con un esempio sarà forse più chiaro.


Se per disgrazia doveste finire al pronto soccorso: preferireste trovare un medico sensibile, lambiccato, desideroso di confrontarsi sui propri problemi esistenziali – ma che non sa dove si trovi il fegato –, o un medico che ha superato l’esame di anatomia con un voto possibilmente alto?

PS - l'ottimo sarebbero ovviamente le due qualità, e sono io il primo ad auspicare, a Medicina, degli insegnamenti su come relazionarsi con i pazienti: in modo non autoritario e infondendo loro fiducia, che sono parte integrante della cura. Ma rimane il fatto che il fegato sta a destra, e la milza a sinistra.

venerdì 11 luglio 2025

Wanda, un'iniziazione mancata (mi ricordo 35)

Mi ricordo la sensazione dell'aria quasi fresca dei primi giorni di settembre. Entrava dai finestrini completamente aperti della BMW 318 bianca – allora è vero che Topolone possedeva una BMW, non era una delle sue solite sparate –, ma prima di raggiungerci faceva dei piccoli mulinelli, si mescolava alla voce di Baglioni che fuoriusciva dalle casse incastonate nelle portiere, e solo alla fine sbatteva sulle facce abbronzate, molto abbronzate.

D'altronde avevamo passato più di tre mesi sulla spiaggia di Lacona: lui, Stefano, detto Topolone, come insegnante di wind surf, io come aiuto bagnino; per essere onesti, il mio ruolo si limitava ad affittare i pedalò e a pulire con una spugna i piattelli degli ombrelloni. Va da sé che le ragazze più belle fossero tutte per Topolone (a ogni nuova conquista veniva a raccontarci di avere guzzato con una topolona, da qui il soprannome), anche se devo dire che io ero nettamente più carino. Ma, oltre allo status inferiore, avevo una brutta grana: ero ancora vergine.

"Sei ancora vergine... Dio bon, chè a gh'è da fèr!" aveva sbottato Topolone quando glielo avevo confessato, per quanto a sedici anni a me non sembrava tanto strano. I miei amici, almeno, erano nella mia stessa condizione, tranne uno che si era messo con una ragazza più grande; avevano affittato una cantina, per  arredarla era bastato un materasso a terra su cui facevano le cose. Noi ci arrangiavamo con i giornaletti di Ilona Staller.

Tutti argomenti che Topolone non voleva nemmeno stare a sentire, chè a gh'è da fèr continuava a ripetere, chè a gh'è da fèr. Quindi aveva concluso con tono perentorio: "A-gh pèins mé."

Ma facciamo un passo indietro. Avevamo lasciato l'Isola d'Elba la mattina con un traghetto della Navarma, il viaggio in autostrada a bordo della Cinquecento color pomodoro di Topolone; il tettuccio era rotto e quando, a Barberino del Mugello, ha cominciato a piovischiare, dovevo tenerlo chiuso con una mano. La BMW l’aveva lasciata a Cento, dove viveva assieme ai genitori. Il programma prevedeva che avrei dormito a casa loro e la mattina successiva sarei ripartito in treno verso Sondrio, con una breve digressione milanese per il concerto della PFM.

L’estate appena trascorsa verrà ricordata per le prodezze di Paolo Rossi, ma, nella stessa squadra che allo stadio Bernabéu vinse il campionato mondiale di calcio, c’era anche un giocatore diciottenne con dei grandi baffi neri, forse per l’aspetto precocemente adulto veniva chiamato Zio. Topolone era l’esatto opposto di quel giocatore, eterno nipote in tutto aveva l'espressione di Gatto Silvestro nell'avvicinarsi alla gabbietta di Titti. Chè a gh'è da fèr, e terminati i tortellini preparati dalla madre eravamo montati sulla BMW alla volta di Bologna.

Ma perché proprio Bologna?

Fu la prima cosa che gli chiesi. La risposta non mi fu del tutto chiara, con il dialetto emiliano vado un po' a intuito, e tra le cose intuite la presenza di una di quelle anziane prostitute definite nave scuola, batteva per strada nella periferia di Bologna. “Tótt ché a-gh sàn pasè” aveva aggiunto Topolone con un mezzo ghigno, come se già pregustasse il piumaggio biondo di Titti.

Ma perché proprio lei? lo incalzavo. In fondo stiamo parlando del lavoro più vecchio del mondo, oltre che tra i più diffusi. Un po' riluttante, voleva farmi una sorpresa, mi rivelò così la ragione della sua fama, per cui arrivavano fin dal Veneto. Dopo essere salita in auto, Wanda, non ricordo il nome ma chiamiamola a questo modo, Wanda si toglieva la dentiera e la poggiava sul cruscotto. Reso il cavo orale più accogliente e meno minaccioso, lo utilizzava per fare ciò che si fa in queste circostanze.

Non so se fosse compresa anche la presenza di Topolone quale pubblico, ero già talmente spaventato che non ho osato chiedere, ma è improbabile che avrebbe ceduto l'auto a un sedicenne, perdipiù vergine. Senza aggiungere altro cominciammo a cercare Wanda.

Per quasi due ore girammo per i luoghi che lui conosceva bene. Rotonde, slarghi, cavalcavia di cemento armato, nei viali semideserti gatti randagi facevano shopping tra i bidoni dell'immondizia, mentre cani a guardia dei magazzini abbaiavano in lontananza. Le insegne illuminate dei distributori di benzina sembravano uscite da un dipinto di Edward Hopper. Di tanto in tanto qualche nero (a Sondrio erano ancora una rarità) traversava la strada dinoccolato, e sparuti gruppi di ragazzi si saldavano attorno a un grumo pulsante di nulla, o forse stavano solo smazzando il fumo. Ma di Wanda nessuna traccia.

Iniziava a farsi sentire la stanchezza del viaggio dall’Isola d’Elba, io avevo il braccio anchilosato per via del tettuccio. Ci fermammo a un chiosco e ordinammo due piadine e tre lattine di Peroni. Perché tre? “Sà mo mai ch'a la catén la fémma”, aveva risposto Topolone non ancora rassegnato. "Vôt brîsa dèrgh da bèver?" Ma poi eravamo montati sulla BMW e tornati a Cento. Avrai, avrai, avrai, le parole di Baglioni suonavano ora come una burla.

Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, tipo quei film in cui vengono messi in scena dei futuri ipotetici. Intendo: nel cono di luce di un lampione, ecco, all'improvviso compare Wanda. È proprio come me l’ero immaginata, non troppo alta, rotondetta, seno tra il grande e l’enorme. Nei capelli vaporosi tinti di rosso si intravede la ricrescita bianca, il ginocchio destro è sbucciato come accade ai bambini quando cascano dalla bicicletta. Fingiamo di non accorgerci di niente e la facciamo montare sui sedili posteriori, dove la raggiungo.

Non servono tanti convenevoli, sa benissimo perché Topolone le ha portato il suo giovane amico, e così si leva in slow motion la dentiera e mi sorride dischiudendo un cratere di mucose. Poi però sembra indugiare, deve avere intuito il mio terrore. “Dâi, putlèn” mi sussurra all'orecchio, “làset andèr…” quasi quasi le do retta. Ma con uno scatto inatteso cala in picchiata, e come una lumaca mi ritiro nel guscio, la natura reagisce al pericolo sempre nello stesso modo: fuga o attacco. Nelle condizioni attuali non passerei il casting per uno di quei giornaletti con Ilona Staller, non ho nemmeno la scusa che fa freddo.

Mi scuoto dalla fantasticheria, ma non so se rallegrarmi oppure essere dispiaciuto per il diverso corso delle cose; la prima vera volta è stata con una ragazza di cui ero innamorato perso, non con una prostituta sdentata di quaranta, facciamo pure cinquanta anni più vecchia di me. Il mulino bianco ha trionfato.

Da dove allora questo sentimento di malinconia? È come se un dio dispettoso avesse infranto il neon del lampione di Wanda, un colpo di fionda ben assestato a cui è seguito il buio, l'ombra ha risucchiato un pezzo di mondo che è rimasto potenziale. Non importa se sarebbe stata festa o, è più verosimile, squallore. Era la mia vita, che cavolo! E per averla indietro la posso solo raccontare.

giovedì 10 luglio 2025

Cristoforo Colombo telefonava in auto, o sui limiti dell’immaginazione

Quando acquistai il primo telefono portatile la cosa che mi sorprendeva ed eccitava di più era la possibilità di telefonare in auto. Ripensandoci, era molto più sorprendente poterlo fare sulla ruota del Prater, oppure nella gabbia dei leoni del circo Medrano, o ancora facendo sci d’acqua nel golfo del Tigullio… Eppure, il primo pensiero era andato all’auto: che figata, adesso posso telefonare in auto!

A decenni di distanza credo di averne compreso la ragione: i film americani, nei film americani la gente telefonava in auto – lo fa, ad esempio, Humphrey Bogart in Sabrina, una pellicola del 1954 –, ed ora la mia vita poteva trasformarsi in un film americano. La fantasia si disorienta se non si assegna dei limiti, per questo i poeti hanno inventato la metrica. E a Cristoforo Colombo dovettero spiegarlo più volte: “Guarda che sei arrivato in America, non in India.” “America... Belin, cöse l'è sta Mèrica?!"

Ma l’America era troppo grande, troppo nuova e grande perfino per l’immaginazione, che ha bisogno del trampolino del noto ber spiccare il suo balzo. Come a dire che anche Cristoforo Colombo telefonava in auto.

Felicità, un dubbio eudemonico

Per essere felici sostiene Charlie Brown, lo confida alla sua amica Piperita Patty in una striscia dei Peanuts, bisogna avere due cose: un lago è un’auto convertibile. Quando c’è il sole abbassi la capotta e ti fai un giro con la tua auto convertibile, l'autoradio a palla, un cappellino da baseball e gli occhiali da sole enormi. E quando piove? Beh, quando piove si riempie il lago.

Mi capita spesso di pensare a questa semplice strategia, non fa una piega, al punto che ho cominciato a comporre delle varianti. L’ultima che mi è venuta vede la felicità come risultato del possesso di un monolocale a Gaza e di un materassino gonfiabile. Quando cala la notte ti rincucci nel tuo monolocale a Gaza, e quando, all’alba, l’esercito israeliano comincia a bombardare, gonfi il materassino e vai al mare.

Ma che succede se invece bombardano la sera?



mercoledì 9 luglio 2025

Un bambino (mi ricordo 34)

 


Mi ricordo di un bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba. Indossa degli occhiali con la montatura di celluloide, su una delle lenti è stato incollato un cerotto traforato che serve a stimolare l’occhio pigro. Il bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba si chiama Davide; è il fratello di un mio compagno di classe delle elementari di nome Federico. Ora frequentiamo entrambi la prima media, ma in istituti diversi – Federico va alla Torelli con la sua bicicletta Saltafoss dorata, io alla Sassi con un’Olympia color ciliegia –, e però giochiamo a pallacanestro assieme e così continuiamo a frequentarci. “C’è Federico?” chiede Davide al citofono; che era lui l'abbiamo capito senza bisogno di presentazione, non c’erano molti altri bambini di cinque anni che citofonavano nei pomeriggi invernali, quando già alle quattro del pomeriggio il sole dilegua dietro al Pizzo dei Tre Signori. “Federico… No, non è qui. Ma tu sali" risponde mia madre, trovando forse strano che Davide girasse da solo in città, e poi con quella temperatura. Entrato in casa viene fatto accomodare su una sedia in cucina, ha le mani intirizzite e i piedi non raggiungono le piastrelle in graniglia. “Vuoi qualcosa di caldo da bere?”, ma poi ci ripenso e gli mostro una bottiglia conica di Fanta. “Oppure da leggere” aggiungo, “un albo di Topolino, Asterix... in soffitta dovrei ancora avere i fumetti di Nonna Abelarda?” “No, aspetto Federico.” Abbiamo provato a spiegargli che non era certo, diciamo pure poco probabile, che Federico arrivasse, anche se eravamo rimasti amici e giocavamo a pallacanestro assieme nella Sondrio Sportiva. “Aspetto Federico”, non dice altro. Un mantra ripetuto guardando dritto avanti, in direzione del frigorifero, lo fissa con il suo occhio pigro e azzurrissimo, la cocciuta fede di Cristoforo Colombo nello scrutare l'orizzonte con un lungo cannocchiale. Prima o poi quel frigorifero si sarebbe aperto e sarebbe uscito Federico. Chissà come è andata a finire, magari un successivo trillo di citofono, sono Federico, mio fratello è lì?; chissà dove cavolo si trovavano i genitori – a cui comunque Davide sembrava poco interessato –; e insomma chissà se qualcuno è venuto a riprendere quel minuscolo pacco postale... Ma evidentemente le cose in qualche modo si sistemarono, e ogni tanto mi capita ancora di incrociare Davide quando viene da queste parti, mentre Federico è morto a ventun anni in un incidente stradale. Stava rientrando con la Fiesta rossa del padre da una discoteca di nome King, era una di quelle notti già fresche in cui l’estate si contrae, i gatti cominciano a cercare la via del fienile e fanno sogni algebrici gli studenti rimandati in matematica. Il mese precedente tutta Italia parlava della Valtellina per via dell’alluvione, un evento che per la prima volta ci aveva fatto sentire al centro di qualcosa, riconosciuti e perfino amati come parte di un tutto fangoso; un'ebbrezza che sembrava riflettersi nei giovani sulla pista a riquadri luminosi del King, l’unico problema si presentava con It’s a Sin dei Pet Shop Boys: non sapendo bene in che modo andasse ballata, alcuni scuotevano il corpo come se fossero traversati da scariche elettriche micidiali. Adesso l’occhio azzurro di Davide deve essersi dato una mossa, ha smesso di essere pigro e non ha più cerotti a coprire una lente degli occhiali; è un architetto di cinquantatré anni, separato, con due figli; si è fatto crescere la barba alla John Lennon anche se ha perso qualche capello, ma nel complesso si mantiene bene. Incredibile come la voce sia rimasta identica a quella di Federico, l’unica traccia viva che conservo del mio compagno di scuola. 

martedì 1 luglio 2025

Il processo Grillo, o sulle irragionevoli ragioni del pisello

Non entro nel merito del processo al figlio di Beppe Grillo, Ciro, accusato dello stupro di una studentessa diciannovenne insieme a tre amici, tutti più o meno della stessa età della vittima oltre che rampolli della buona borghesia genovese; particolare che non me li rende troppo simpatici, confesso. La mia antipatia, a pelle, per gli imputati, mi renderebbe poco attendibile; a ciò si aggiunga la scarsa conoscenza della vicenda avvenuta nell’estate del 2019, e più in generale del Codice di procedura penale.

Proviamo allora a guardare alla materia da una prospettiva diversa. Il procuratore capo del Tribunale di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha appena richiesto una pena detentiva di nove anni, che oltre ad apparire particolarmente consistente solleva una questione filosofica. La ricaviamo dalle motivazioni: le condizioni (verosimilmente alcoliche) della vittima le impedivano di esprimere il proprio consenso; detto in altre parole, non era cosciente di cosa stava facendo. E quattro figli di papà che scopano a turno una ragazza incosciente fanno schifo. Questo possiamo anche dirlo, la condanna estetica non ha bisogno di tre gradi di giudizio.

Però l'accusa rilancia questioni antiche e mai risolte – lo stesso la difesa, beninteso –, e mi chiedo se la specie a cui apparteniamo disponga di qualcosa come un rilevatore di coscienza… Intendo: come faccio a sapere se un'altra persona, in quel preciso momento, è davvero cosciente oppure no? A ben vedere, è lo stesso dubbio etico che si sta dischiudendo con l’intelligenza artificiale.

Certo, nel caso di una ragazza ubriaca degli indicatori esistono eccome (andatura pencolante, voce strascicata etc.), ma il punto esatto di confine è sempre discrezionale; per altro, se è discrezionale nella vittima deve esserlo anche negli accusati, tanto che nel diritto ciò rappresenta un’attenuante alla pena, fino al suo completo stralcio perché non in grado di intendere e di volere.

Ma anche questa formula, che abbiamo sentito centinaia di volte, sottende una visione fin troppo ottimistica delle competenze psichiatriche, che dovrebbero dirimere la materia. E ciò perché non esiste una teoria generale della coscienza – in realtà ne esistono molte, ma in conflitto tra loro.

L’unico modo per uscirne sarebbe quello di fare sottoscrivere un’autocertificazione di coscienza; un modulo da compilare prima di ogni transazione umana, non necessariamente sessuale: “Io, Tal dei Tali, sono cosciente delle mie azioni, anche tu lo sei e intendi ricambiare il bacio che sto per darti?” Non vi fa venire in mente qualcosa… Massì, la frase rituale pronunciata dagli sposi sull’altare. Un modo di procedere nemmeno tanto estremo, nei college americani già si stanno attrezzando.

Certamente utile nelle controversie giudiziarie, questa eventuale dichiarazione non ci direbbe però ancora nulla sulla natura della coscienza, dal momento che oltre a esistere la menzogna una persona incosciente, per definizione, non è cosciente nemmeno della propria incoscienza, e in tal caso potrebbe sottoscrivere qualsiasi cosa.

Per tornare alla filosofia, ricorda il celebre paradosso di Epimenide, nato a Cnosso nel VI secolo a.C. Il quale affermava: Tutti i cretesi mentono. Ma se mentono, mentirà anche Epimenide, e questa frase è falsa. Allo stesso modo, se le persone incoscienti pensano di essere coscienti, chi ci dice che una persona che si dichiara cosciente non sia invece incosciente? 

Si dovrebbe allora concludere, con Pascal, che il cuore possiede delle ragioni che la ragione non conosce. Per non dire il pisello, organo ampiamente mutevole nelle dimensioni quanto nelle intenzioni.

lunedì 30 giugno 2025

La povera gente

Dei personaggi pubblici mancati negli ultimi anni, quelli di cui ho sentito maggiormente il lutto sono stati Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Mariangela Melato, Nadia Toffa, Eleonora Giorgi, Silvio Berlusconi e Papa Francesco.

Se i primi quattro trovano una giustificazione nei miei interessi e passioni, Nadia Toffa ed Eleonora Giorgi mi sembravano donne senza sovrastrutture glamour, con una naturalezza volta al bene; ho seguito distrattamente la loro carriera professionale, ma alla notizia della scomparsa ho sentito stringersi il diaframma.

Quanto alla compresenza degli ultimi nomi, mi procura un vago senso di imbarazzo  forse una parte di me ritiene blasfemo infilare nello stesso paniere la massima guida spirituale, almeno in Occidente, e il massimo puttaniere.

Eppure Berlusconi aveva saputo trasmettermi quell'illusione di familiarità  non ero così ingenuo da credere di essere ricambiato  che te lo faceva percepire come un parente un po' eccentrico, lo zio mattacchione che ha fatto fortuna in America e quando torna (naturalmente in Cadillac) regala cappelli da cowboy a tutti. Non ti piace il cappello da cowboy? Non c'è problema, ha lì bello e pronto anche il piumaggio da Toro Seduto, e dopo un paio di bicchieri tutti nel lettone di Putin, dove può finalmente raccontare storielle licenziose.

Ma se dovessi fare il crudele gioco della torre, non sarebbe lui, e nemmeno Bergoglio, a rimanere in vetta, e piuttosto Enzo Jannacci.

Mi capita spesso di pensare: cosa avrebbe detto di questo Jannacci, e di quest'altro? La politica, ad esempio. Nella sua ultima intervista cercarono di farlo sbilanciare sull'argomento, ma lui driblò la domanda con la consueta stralunata grazia; era un campione nel non rispondere, salvo poi accorgerti che in quelle frasi smozzicate aveva nascosto una perla. Dopo avere bofonchiato qualcosa che non ho capito, come se un ventriloquo stesse facendo prove di sincronia con le labbra, finalmente parole quasi comprensibili:

"Io non vengo mica qua perché sono fanatico... vengo qui per vedere i ragazzi che sono cresciuti... eh... sono contento che ci siano... ma non perché sono di fede cristiana, o di fede religiosa socialista... anzi, io spererei che fossero tutti come mio padre... come me... che pensassero agli altri, alla povera gente."

Non credo che un manuale di filosofia politica riesca a dirlo in forma più esatta: pensare agli altri, alla povera gente. Sì, Jannacci è il performer, il cantante, il medico, il musicista e perfino il politico che mi manca di più. Ma soprattutto mi manca la persona, l'uomo. Un uomo che, come suo padre, pensava agli altri, alla povera gente.

domenica 29 giugno 2025

Cani e gatti

Brassens sosteneva di preferire i gatti ai cani perché non aveva mai visto un gatto poliziotto. Si potrebbe obiettargli di non avere mai visto nemmeno un gatto aiuto bagnino, oppure un gatto che guida i ciechi su marciapiedi trafficati, un altro ancora con al collo una botticella colma di brandy, da offrire alle persone disperse nella neve come si dice facciano i cani San Bernardo.

Una contrapposizione, quella tra cani e gatti, in effetti molto umana, a riflettere categorie antropologiche opposte: farsi i cazzi propri senza arrecare alcun danno al prossimo, o, in alternativa, provare a mutare le sorti del mondo, in ciò utilizzando chiavi di lettura e prassi che saranno di necessità discrezionali, talvolta perfino poliziesche?

La risposta esatta (quella con cui vincere a un quiz di Amadeus) ovviamente non c'è, e così dobbiamo affidarci a vecchi proverbi popolari. Forse la gatta non si arrischia verso la polpa della vita, ossia il suo lardo, per non lasciarci lo zampino, trovando in un'adesione misurata e vagamente zen la giusta misura, mentre il cane morde quando non gli è stato insegnato ad abbaiare in modo articolato le proprie istanze. È un fatto che chi non fa, non sbaglia. 

sabato 28 giugno 2025

E adesso? (mi ricordo 33)

Mi ricordo di un gioco che chiamavamo pallabuio. Per giocare a pallabuio bisognava scendere la doppia rampa che conduce ai box del condominio accanto, dove vivevano il dottor Grimaldi, sua moglie Pia e i quattro figli, due maschi e due femmine concentrati attorno al pilone centrale degli anni Sessanta, come se quest'epoca fosse un circo in cui scagliare bambini nel mondo. Assieme al più grande, Francesco, avevamo realizzato una teleferica che univa le nostre camerette, con la quale potevamo scambiarci i fumetti di Skorpio, Capitan America, Tex; quando i nostri genitori non erano in casa, anche Lando e Maghella. Le istruzioni per la teleferica stavano sul Manuale delle Giovani Marmotte, erano bastate una cesta di vimini e la cordicella dello stendipanni: agganciandola a una pallina da tennis viene stabilito il primo contatto tra la stazione di monte e la stazione di valle, da raggiungere con un lancio calibrato. Nello stesso edificio in puro massiccio stile geometrile, i coniugi Flematti, secondo piano, scala B, con il figlio Giuliano che ne sapeva sempre una più degli altri; accanto l'appartamento di suo cugino Fabio, il padre beveva solo Campari e una volta si è addormentato in macchina, ce ne accorgemmo perché la testa era rimasta posata sul clacson; Silvia, primo piano, ma scala A, aveva due fratelli e i fratelli di Silvia avevano due biciclette da corsa, il colore era quello dell'acqua dei ruscelli; il Pittino e la Pittino, figli del signor Pittino e della signora Pittino, mi sfugge adesso la collocazione spaziale, e da sempre i loro nomi di battesimo: venivano chiamati con il solo cognome, a distinguerli il genere dell'articolo determinativo; sotto la pensilina che dà su via Parolo, il bar della Pelosa e, all'angolo, dove adesso c'è la sala con le macchinette rubasoldi gestita dai cinesi, quello dei genitori di Claudio; lì ho assaggiato per la prima volta il frappè alla fragola fatto con le bustine, trovandolo molto più buono che con le fragole naturali; dal parrucchiere Dino potevamo finalmente sfogliare i fotoromanzi, le donne erano di una bellezza rassicurante mentre i maschi somigliavano al figlio dell'impresario che viveva nell'attico: pantaloni a zampa di elefante, giubbetti di pelle attillati, capelli lunghi e scuri e lisci alla Panatta, ma con in più le basette; sopra all'appartamento dei Grimaldi il ragionier Pizzala, un pezzo d'uomo, al contrario della moglie che era piccolina e mi chiamava sempre caro; la figlia più giovane si chiamava Adele e doveva avere preso la statura dal padre e la dolcezza dalla madre, tutti pensavano che da grande avrebbe fatto anche lei i fotoromanzi; tutti noi, almeno, che ci infilavamo nel buio vero dei garage per giocare a pallabuio. Calciavamo a turno un pallone di plastica da ricercare poi a tentoni e chi lo trovava doveva risalire senza essere notato. In caso contrario, gli altri potevano fargli qualsiasi cosa per sottrargli la palla, da posare in un preciso punto in superfice  il gioco si faceva ora un po' simile al rugby – dove il sole abbaglia, si riflette sulla basculante posteriore dell'alimentari Paini, illumina la pista tracciata con la vernice rossa per giocare con i tappi della gazzosa, disegna ombre oblique filtrando dai raggi delle biciclette dei fratelli di Silvia; prima di immergersi anche loro nell'abisso dei garage, le appoggiavano al contrafforte di cemento che separa il cortile dal giardino delle due zitelle, al centro del quale svetta, tutt'ora, un grande pino, sotto a cui Maria Assunta sorseggiava acqua con l'orzata nei caldi pomeriggi di fine giugno. E sopra ogni cosa il filo sottile della nostra teleferica, di tanto in tanto si posava qualche rondine, erano le prime a scorgere il fortunato che aveva sottratto la sfera preziosa al regno delle tenebre, si avvicinava alla meta col fiatone e la stessa espressione di Antoine Doinel quando, al termine dei 400 colpi, raggiunge la costa atlantica a cui era diretta la sua fuga dal riformatorio, piccole onde di risacca già gli lambiscono i piedi, si gira, guarda in camera, e sembra chiedersi: e adesso...?

giovedì 26 giugno 2025

плачущие мужчины

A me piace questa cosa dei russi che piangono tra maschi. Non è poco virile piangere tra maschi, per i russi almeno. Il maschio piangendo rimane maschio, meglio ancora diventa uomo, lo status biologico non viene intaccato, ma il sentimento lo accresce di una dimensione storica. A noi, fin da piccoli, è stato insegnato il contrario: se piangi sei una femminuccia.

A dire il vero io non conosco tanti russi, ma lo sostiene Paolo Nori in un suo scritto. Una volta Paolo Nori stava parlando con un camionista russo e fa una citazione da Puškin. A quel punto il camionista scoppia a piangere, lasciando l'interlocutore confuso. Allora il camionista lo abbraccia e gli sussurra all'orecchio: "Tu sei venuto fin qui dall'Italia... e conosci le parole... dalla tua bocca le parole del nostro Aleksandr Sergeevič... Non è commovente?" E così anche a Paolo Nori vengono gli occhi umidi.

Io ho pianto una sola volta assieme a un altro maschio. Era il mio medico della mutua, stavamo nel suo studio che si trova in un bel condominio al termine del Lungo Mallero Diaz, a Sondrio. Uno può pensare che mi aveva appena rivelato l'esito funesto di un esame  in effetti i miei esami del sangue, nell'ultimo periodo, non sono tanto belli, ma invece no: sono io ad avergli rivelato una cosa, una canzone di Vinicio Capossela per la precisione.

Io e il mio medico ci conosciamo da tanti anni, e così per fargli capire come mi sentivo  Come ti senti? era stata la sua domanda  ho tirato fuori lo smartphone e avviato l'audio della canzone su YouTube. La musica è ripresa da un brano di Thelonious Monk, Abide with me, il cui titolo a sua volta richiama un inno sacro del 1847, scritto dal curato scozzese Henry Francis Lyte è stato rielaborato da Capossela. Intanto, nella sala d'attesa c'è una persona che aspetta con le gambe accostate come le statue egizie; è un cinese sulla settantina, e dunque non è vero che quando i cinesi si ammalano non si curano, e non curandosi muoiono, e una volta morti vengono fatti sparire.

Io e il mio medico continuiamo ad ascoltare. Nessuno dei due parla, da lati opposti fissiamo un identico punto sulla scrivania  forse una ricetta medica, non ricordo , mentre le note raggiungono la sala d'attesa, dove sta seduto compostamente il cinese. Quando la canzone termina e rialziamo lo sguardo ci accorgiamo che stiamo entrambi piangendo.

Lacrime, proprio. Fuoriescono dalle sacche lacrimali di due maschi caucasici adulti, cosa facciamo adesso sembrano chiedersi, nel locale adiacente si intravede un lettino a cui è accostato lo sfigmomanometro. Intanto, un cinese continua ad aspettare il suo turno. Chissà cosa avrà pensato nell'udire le note di Thelonious Monk accompagnate dalla vocina stridula di Capossela... Grazie a Dio non doveva essere una cosa urgente, alla mia uscita con il fazzoletto in mano era ancora vivo. L'ho salutato con tono di scusa  ogni luogo ha le sue pratiche, e non si fa lo sci d'acqua in piscina  a cui ha risposto con gli occhi alla maniera dei gatti siamesi. Ma anche fosse morto, non avrei visto i manifesti funebri. 

Di seguito, il testo della canzone che si intitola Sopporta con me, dall'ultimo album di Vinicio Capossela, Sciusten Feste n 1965

"Sopporta con me, mio Signore
Per ogni evenienza, sopporta con me
Sopporta con me
Gli eventi precipitano, le tenebre sprofondano
Signore, con me
Sopporta tutto questo
Dove l'aiuto degli altri fallisce
Quando non basta più e il conforto svanisce
Aiuto dei senza aiuto
Sopporta con me
Soprattutto la sera

Ai margini del breve giorno della vita
La gioia della terra cresce e continua
Ma la sua gloria passa
Tutto intorno quello che vedo cambia e decade
Oh, ma Tu che non cambi mai
Insomma, sopporta con me

Non ti chiedo la carità né parole di conforto
Per chi mi hai preso
Per uno dei tuoi discepoli, eh, Signore
Familiare, disponibile, paziente, libero
Solitario
Non tenermi compagnia
Ma abbi il coraggio almeno una volta
Di sopportare con me

Non venire nel terrore come il re dei re
Ma delicato e gentile con ali di sentimento
Con lacrime per tutti i peccati
E un cuore nuovo per ogni necessità
Vieni, amico dei peccatori
Sopportiamo insieme

Nella mia testa continua a sorridere
Come nella prima giovinezza
E nel frattempo ho attraversato ribellioni e perversioni
Che non mi hanno più lasciato, ma io ho lasciato loro
Almeno alla fine, oh Signore

Sopporta con me
Sopporta con me, ne ho bisogno come le ore
Hanno bisogno di passare
Cosa, se non la grazia
Può alleviare il potere delle tentazioni
Chi, se non Tu stesso
Potrà guidare il mio restare
Sole e nuvole, Signore
Sopporta con me

Non temo nulla, se ci metteremo d'accordo
Il malessere è senza peso
E le lacrime non sono amare
Dov'è la punta della morte
Dov'è sepolta la vittoria
Trionferò lo stesso
Se Tu solo sopporterai con me

Resisti fino al passaggio
Prima che gli ochi mi si chiudano
Brilla nella nebbia e indicami il cielo trasparente
Il mattino irrompe in paradiso
E l'ombra inutile della terra sparisce
In vita e morte, Signore
Di questo davvero ti prego
In vita e in morte, Signore
Sopporta con me
Di questo davvero ti prego
Sopporta con me"