domenica 2 novembre 2025

Dio è una persona difficile (mi ricordo 65)

 


Mi ricordo dei giorni del lockdown pensando a Michele; mi ricordo di Michele pensando che magari oggi mi ha chiamato e io non l’ho sentito, non ho potuto sentirlo, perché l’ho bannato.

Michele è un po' tocco, diciamolo subito senza tanti giri di parole. Ma Michele è mio amico. Non mi era mai capitato di bannare il numero di telefono di un amico, ho però dovuto farlo con Michele. Il fatto è che chiamava nel cuore della notte. Mi sento sooolo diceva con accento siciliano, la penultima vocale strascicata. E io l'ho bannato.

Continua comunque a essere mio amico, ci siamo conosciuti una decina di anni fa al Bar Piero. Nei giorni del lockdown il Bar Piero era chiuso, e così ogni tanto ero io a chiamarlo. Non in piena notte come fa lui, ma verso le sette di sera quando ha finito di cenare all'ora in cui cenano i vecchi e gli svizzeri; intanto, guarda il quiz di Amadeus:

– Conosci le risposte? – mi chiedeva.

– Alcune sì e alcune no, Michele.

– Io nessuna, conosco solo i santi.

Ed è vero: non gliene sfugge uno. Se invece di Amadeus ci fosse ancora Mike Bongiorno con le sue domande a tema, sono certo che potrebbe sbancare Rischiatutto. Argomento a scelta vita dei santi, ovviamente.

La conversazione telefonica procedeva con l’enumerazione di ciò che ha appena mangiato. Carne Simmenthal, pomodori, pane, olio, sale, salame piccante, sottilette Kraft, tre uova, acqua frizzante, una mela, due noci e un dattero. A Michele piace fare lunghi elenchi. Ma gli piace soprattutto mangiare, ha sempre fame, una fame come si dice atavica, simile a quella di Totò in Miseria e nobiltà.

L'unica cosa che non può mangiare sono i dolci. Sono morti di diabete la madre, il padre e soffrono della stessa malattia tre degli otto fratelli, tutti rimasti in Sicilia. Non si capisce bene perché lui invece stia qui, a Sondrio. Se glielo chiedi ti risponde io sono nordiiista, termine con cui qualifica le persone del nord Italia.

Un'altra cosa che piace fare a Michele è andare in chiesa. È capace di seguire anche due messe al giorno, oltre a numerosi rosari. Non che comprenda tutto ciò che viene detto, specie nell'omelia. Dio è una persona difficile mi ha confidato una volta. Però intanto prega: per avere una casa, o più precisamente una fattoria con vitelli, conigli, capretti, galline, maiali; poi una Harley-Davidson, un Maggiolone Volkswagen, una fidanzata nordista e così via, anche qui parte l'elenco.

Ma non prega solo per sé e la realizzazione dei suoi desideri; sui quali, va detto, ogni tanto comincia a dubitare. E non fa nieeente... dice, in cui il soggetto implicito è con tutta evidenza Dio. Ho pregato per te e Fata Morgaaana, dice ancora. Fata Morgana sarebbe mia madre. Io invece sono Volpe, si diverte a dare soprannomi. Ivan, un altro amico comune, è il Generale, mentre il terzo della combriccola è semplicemente zio Luigi.

– E tu come ti chiami – gli ho chiesto un giorno , qual è il tuo soprannome?

Si è grattato il grosso capoccione per qualche secondo, poi, d'impulso, ha risposto: – Io sono il Bambino.

Il venerdì andavamo a mangiare tutti assieme in pizzeria. Il Generale, zio Luigi e io ordinavamo una pizza, mentre il Bambino due cotolette alla milanese e un uovo al burro. Lui ormai si sente nordista anche a tavola, la pasta alle sarde è memoria sbiadita e non rimpianta, roba da sudisti. Ha anche acquistato un cappellino da baseball con sopra scritto I ❤️ Milano. Se lo toglie solo quando va in chiesa.

Oltre ad andare in chiesa e mangiare come un porco, Michele passa il suo tempo in piazza, seduto su una panchina che sta tra la chiesa e il Bar Piero. Lì fuma e conversa un po' con tutti. È gentile e benvoluto, somiglia a un enorme cucciolo di koala. Un orsacchiotto che parla, parla, non smette mai; anche di fumare. Forse perché si sente solo, come mi ripeteva nelle telefonate notturne prima che lo bannassi. Ogni tanto ho i sensi di colpa e lo sbanno, ma giro una settimana e riecco comparire il suo nome sul display: 

– Pronto, cosa c'è? 

– Mi sento sooolo.

– Ok Michele, ma sono le tre e mezza di notte...

Lui continua imperterrito come se fosse un trascurabile dettaglio: – Ieri, al Centro, una mi ha fatto una sega. 

– Una sega! Ma il direttore non aveva detto che se ti scopre ancora a farti fare le seghe dalle pazienti sono guai?

– Sì, ma mi so fatto fuuurbo.

– Furbo?

– In ascensore. Abbiamo preso l'ascensooore. Poi ho schiacciato il tasto, quello rosso, l'ascensore si è bloccaaata. E me l'ha fatta lì.

– Mmm...

– ...

– Quante gliene hai date?

– Le ho daaato un pacco di Camel.

– Michele, quante volte te lo devo dire che un pacchetto è troppo! La prossima volta dalle solo cinque sigarette: per una sega è fino a mai.

Conversazioni così, mentre i panettieri discutono dell'impasto e tutti gli altri dormono. D'altronde il Centro sarebbe il Centro diurno di sostegno psicologico e sociale, altrimenti detto CPS. Prima lo chiamavano manicomio, il manicomio di Sondrio, conficcato tra le vigne dove fanno un ottimo Valtellina superiore. Tra i matti ho scoperto che vige ancora il baratto, e le merci di scambio più pregiate non sono oro, incenso e mirra, ma sesso e sigarette.

Nei giorni del lockdown però era chiuso anche il Centro diurno. Niente seghe, niente Bar Piero, niente messe. A Michele rimanevano solo le domande di Amadeus – di cui però non conosce le risposte –, oltre alle sigarette e alle Simmenthal, con cui non riesce a colmare il suo disperato bisogno di compagnia. Di affetto, meglio. Che è forse amore a misura di bambino. Un sentimento semplice, tattile, non si è ancora complicato e divenuto enigmistico. 

“Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone (…) a cercare fratelli che non sono più”, lo scriveva Pasolini in una poesia del 1964. Allo stesso modo, nel marzo e nell'aprile del 2020, Michele girava come il pazzo che è tra i piccioni posati sul sagrato della chiesa e la saracinesca sbarrata del Bar Piero, prima di sedersi sulla sua solita panchina. Da solo. Anzi, sooolo.

Quando Dean Martin attacca la prima strofa di Volare, la suoneria che ho impostato sullo smartphone, dopo le dieci di sera penso sempre sia Michele, anche se magari è una badante ucraina che ha sbagliato numero: Ciao Olga carissima, sono Myroslava. Non sono Olga. Poi mi ricordo che il suo numero è fuori gioco, e tiro un sospiro. Non ho ancora capito se sia di sollievo o di rimpianto.

Durante il lockdown ci si telefonava più spesso, non c'erano molte alternative. Per paradosso, è stata un'occasione per rinsaldare rapporti che si stavano sfilacciando. Ad esempio con un mio conoscente che non sentivo da anni, non che avessimo chissà cosa da dirci, alla fine lo scambio si è limitato alla cronaca rarefatta di quel giorno. Era appena passato in piazza Campello per andare in farmacia, uno dei pochi spostamenti concessi. 

– Oh, non puoi crederci – mi ha detto col tono di chi è appena uscito dalla grotta della paura –, mai vista la città così deserta. Alle sei di pomeriggio non c'era anima viva.

– Eh già, non si può andare in giro  ho ribattuto tanto per dire qualcosa.

–  L'unico era un tipo grasso. Stava seduto su una panchina, tutto da una parte, come se aspettasse qualcuno. Intanto si accendeva una sigaretta con il mozzicone della precedente.

– Per caso indossava un cappellino da baseball?

– Sì, un cappellino blu con la scritta I ❤️ Milano. Come fai a saperlo?

– È il Bambino.

– Chi?

– Non importa.

Al termine della telefonata ho pensato che il Covid non è stato solo grafici, plateau del contagio, pallottoliere dei morti, medici e infermieri esausti ed economia, bisogna far ripartire l’economia tuonava la Confindustria. È stato anche Michele e la sua panchina. Su cui forse pregava alla sua maniera, quando parla con Dio non ha nemmeno più le vocali strascicate:

– Ti supplico, fammi tornare a mangiare cotolette assieme a zio Luigi, la Volpe e il Generale. Ti do una sigaretta. Anzi di più, quante ne vuoi? Facciamo una stecca, basta che fai sparire questo stupido virus. Ma nel conto mettici pure tre seghe in ascensore senza che il direttore mi scopre.

Non so cosa abbia risposto l'interlocutore. In fondo aveva ragione Michele, Dio è una persona difficile.

Maggiolini (mi ricordo 64)

Mi ricordo i maggiolini comparire in massa al sole generoso di maggio, chi ne ha scelto il nome non deve essersi sforzato troppo. D'altronde l'esistenza di quell'insetto innocuo e tozzo si consumava quasi interamente nella tarda primavera: ad aprile non si vedevano ancora in giro e, a fine giugno, si ritirava con apprensione la pagella scolastica, senza che il viaggio in bicicletta verso la Scuola elementare di via Vanoni fosse tempestato dai maggiolini.

In alcuni anni erano presenti più che in altri, la maestra ci aveva detto che seguivano uno schema ciclico, ogni quattro giri di calendario si presentava un'annata copiosa; non seppe dirci la ragione ma in fondo interessava poco, più che altro era una prassi a legare i bambini degli anni Settanta ai maggiolini.

Alcuni li infilzavano con la punta del compasso, altri gli strappavano le ali e poi organizzavano delle gare (con gambette sproporzionate al corpo arrancavano senza una direzione precisa, per mantenerli nei margini della pista, tracciata a pennarello sul cemento del cortile, gli si dava dei colpetti con le dita), altri ancora li bruciavano vivi per mezzo dell’accendino Dupont del padre. C'era solo l'imbarazzo della scelta, a qualsiasi tortura non si sarebbero ribellati.

Io mi limitavo a spappolarli con una ciabatta se entravano in casa dalle finestre spalancate – che schifo! – e a dargli degli schiaffoni se si fissavano agli abiti o ai capelli – ancora più schifo –, cosa che avveniva con uguale frequenza; è come se cercassero il contatto, l'amicizia. O magari era pura vocazione al martirio: non solo non possedevano la rapidità di fuga della mosca e il pungiglione della vespa, ma ti venivano incontro fiduciosi, con tutto ciò che gliene veniva.

Fammi pure ciò che vuoi, parevano comunicare con l'aspetto repellente, basta che mi aiuti ad andarmene da qui il prima possibile, dopo un paio di settimane già non ne potevano più di stare al mondo. Per questo non ci intendevamo. Tanto a noi piaceva il Cornetto Algida, eccitava l’autopista Policar, sorprendeva la bolla soffiata con le labbra nella pasta morbida ed elastica delle Big Babol, quanto a loro avresti attribuito il pensiero schifato di antichi gnostici, detestando ogni cosa a partire da loro stessi. Ma era un detestare gentile.

Si dice che la natura proceda seguendo la legge darwiniana di selezione del più adatto, e mi chiedo a quale funzione il maggiolino corrispondesse con tanta accuratezza, a giustificare la diffusione infestante. Forse proprio ad allenare gli uomini alla crudeltà, già a partire dagli esordi infantili. Se ne ricava che l'umanità ora non abbia più bisogno di tale apprendistato, con i maggiolini a condividere la sorte di lucciole, mammut, uri e foche monache dei Caraibi, oltre a Cino Tortorella nel ruolo del Mago Zurlì. Anche lui scomparso senza lasciare eredi in abiti da paggetto.

Una spiegazione che mi convince poco, e preferisco pensare ai maggiolini come a uno dei tanti errori nel procedere per tentativi della vita: try and fail, prima si fa e poi eventualmente si aggiusta il tiro. Quando hanno finalmente inteso di non essere benvoluti, i maggiolini hanno smesso di farci visita, senza alcuna polemica, revocando il dono della loro gentilezza. Un'acquisizione che tutt'ora difetta alla specie a cui appartengo, non meno superflua ma incapace di fare tesoro dall'esperienza. Del mite e sfortunato insetto resterà così solo un omonimo modello della Volkswagen.

sabato 1 novembre 2025

Grattacieli (mi ricordo 63)

Mi ricordo dei grattacieli milanesi all’ora del tramonto, specie in inverno quando il sole cala presto e le polveri sottili saturano l'aria, conferendo un che di seppiato alla visione, da presente remoto. Mi piaceva osservarli in questo lieve scarto, andate pure a bere l’aperitivo dicevo, io vi raggiungo dopo. E mi sedevo su una panchina a fissare un grattacielo, uno a caso purché ospitasse solamente uffici.

Intorno alle diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero, iniziano a spegnersi le prime luci. Dalle pareti specchiate lo si vede bene. Poi è tutto un incalzare di interruttori: clic, clic, clic… La sagoma di vetro, acciaio e cemento armato si rabbuia, seguendo lo stesso destino di un albero di Natale arrivata l'Epifania.

Ci sono però tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le otto di sera, le nove perfino e qualcuno ancora abita quelle stanze. Alla fine il freddo ha sempre prevalso e non so come vada a finire, ma nell’alzarmi mi chiedevo ogni volta: chi sono?

Degli stakanovisti, o meglio ancora degli amanti clandestini, il direttore e la segretaria che scopano sulla scrivania… Più facile e meno letteraria la presenza del personale delle pulizie. Ma nell'immagine permane un elemento che resiste alla logica, a farsi metafora di un tramonto più esteso. Invecchiare, penso, deve essere la stessa cosa. La medesima ostinazione.

Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta. Prima viene il fratello di una compagna: bussa il bidello e comunica che è annegato al fiume; è solo una lampadina rotta ti dici, basta sostituirla. Poi la corrente elettrica comincia ad arrivare a sprazzi, qualcuno riprende a fare uso di candele, l'oscurità diventa regola. L’orario di ufficio in fondo è terminato, che c’è di strano? Ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore, chiudere tutto e tornare a casa. 

martedì 28 ottobre 2025

Principi e rospi (mi ricordo 62)

Mi ricordo le feste di pomeriggio. Prima c'erano state quelle alle elementari, dove troneggiava la bottiglia conica della Fanta ed era sempre presente una mamma, una a caso che faceva i turni nell'ospitare i compagni di classe del figlio, a cui offriva una fetta di torta alle mele e il bidone del Dixan. Per fortuna, al suo interno, la polverina azzurra era stata sostituita dai mattoncini colorati del Lego.

Seguirono le feste delle medie, non troppo diverse: si aggiungeva alla Fanta la Coca-Cola e non c'era più la mamma, né il bidone del Dixan. In compenso, se la casa apparteneva ai genitori di una ragazza, subentravano i 45 giri di Umberto Tozzi e Claudio Baglioni, mentre Born To Be Alive di Patrick Hernandez e On the Road Again dei Rockets erano appannaggio dei maschi, prima che la colonna sonora della Febbre del sabato sera stabilisse un unanime consenso di genere. Ma le feste a cui penso io sono quelle all'inizio delle superiori.

I luoghi in cui avvenivano continuavano a essere privati. Non si trattava però di vere e proprie abitazioni, o meglio lo erano state, case di campagna dei nonni, vecchi zii morti che avevano lasciato il poco che avevano in eredità, e ora i nipoti ci facevano un festino. Venivano chiamati locali, per quanto fossero presenti più camere e almeno un soggiorno, in cui ballare e bere e fumare. Qualche canna e poco altro, riguardo allo sballo.

C'è una festa nel locale di Tal dei Tali, si diceva. Oppure in un locale a Caiolo, Chiuro, Mossini… E vai tu a sapere a chi appartenesse, ma era girata la voce e si andava lì e si provava a imbucarsi. Di solito andava bene.

La stanza più defilata veniva adibita a guardaroba, con i giacconi buttati su un vecchio materasso posato al suolo che possedeva un’altra funzione, facilmente intuibile. Bastava entrare, un po’ a tentoni per via dell'oscurità, le tapparelle erano abbassate e la porta andava mantenuta chiusa, ehi fai attenzione! Ma se chiedevi scusa al paio di coppie già lì presenti e non viste, ti facevano volentieri spazio. Così potevi a tua volta limonare. 

Dovevi però prima trovare una ragazza che fosse disposta a farlo. Non era difficilissimo, per essere onesti. Anche perché non era tanto importante sapere a chi appartenesse il cavo orale da perlustrare, ma il ritorno al Bar Sole il lunedì successivo (di norma le feste pomeridiane avvenivano il sabato o la domenica), dove raccontare della nuova conquista agli amici. Sospetto che anche tra le ragazze avvenisse qualcosa di simile, contribuiva ad aggiungere palline all'abaco del proprio prestigio sociale. 

A me capitò di appartarmi con una ragazza che odorava di sambuco e aveva due tette belle sode, ma scoprii il giorno successivo che passava per essere la più brutta dell’intero istituto linguistico. Dico passava perché c’eravamo a malapena presentati, giusto un po' di strusciamenti sulle note di Enola Gay (non si sa come la trasformammo in ballo lento) e poi subito sul materasso. Ma è quanto sosteneva quella carognetta di Paola – d’altronde se non lo sapeva lei, che frequentava lo stesso istituto. Cominciò ad andare in giro a dire: Oh, lo sapete, Hauser ha limonato con la XXX! E giù tutti a ridere.

Io avevo anche provato a negare: No no, si trattava di un’altra scongiuravo – e per quanto ne sapevo avrebbe anche potuto essere vero –, un’altra molto carina, figurati se mi metto con la XXX… Ma pare che qualcuno fosse presente all'inciucio, e avesse riportato la gravissima colpa a quel megafono di Paola.

Non sono certo orgoglioso dei miei balbettanti tentativi di scagionarmi. Ma negli adolescenti, maschi e femmine, il patriarcato non c'entra nulla, è presente un sentimento feroce e primitivo, un darwinismo estetico dove ciò che davvero importa non è chi è più adatto alla riproduzione, l'adattabilità richiesta è alla copertina di Vogue. E come in tutti i sentimenti tribali agisce il principio di metonimia: se tocchi un'intoccabile, diventi intoccabile anche tu.

Milan Kundera sostiene che agli uomini piacciono le donne belle, mentre alle donne piacciono gli uomini che stanno con le donne belle. Messa così suona un po’ tranciante, ma è un fatto che da quel giorno cominciai a essere ignorato dalle ragazze. E sì che avevo tutte le carte in regola: andavo male a scuola, impennavo in motorino, a braccio di ferro sapevo farmi valere. Ero anche piuttosto belloccio, ma avevo baciato una donna brutta. E questo mi aveva convertito in rospo.

Continuavo a frequentare le feste nei locali, quando però invitavo una ragazza a ballare ricevevo risposte elusive, no, guarda, ho mal di testa, oppure magari dopo, adesso devo andare in bagno, e poi la sentivo ridere con l’amica: Lo sai chi è quello? È il tipo che ha limonato con la XXX.

A fine maggio andai in gita a Vienna. Non una gita scolastica, era organizzata dal Comune, e così trovai ragazzi che non conoscevo e soprattutto non mi conoscevano. Perlopiù frequentavano il liceo scientifico, mentre io ragioneria. Mi trovavo dunque a un livello gerarchico inferiore – in quegli anni il classico aveva perso molto del suo storico blasone, i figli della borghesia sondriese erano migrati allo scientifico –, ma se non altro non sapevano del fattaccio che mi aveva precipitato nel girone dei superflui.

Mentre stavo discutendo con Fabio se fossero meglio i Genesis o i Pink Floyd, ci accostò una ragazza che come noi si era staccata dal gruppo. Occhi azzurri, capelli lunghi con colpi di sole, camminata neghittosa da ricchi in ciabatte; un po’ in stile Totò ospite nella villa caprese di Franca Valeri, in Totò a colori. Si rivolse a me con il tono di chi offre, non di chi chiede, il roseto di Wolksgarter faceva da cornice. Io mi chiamo Elena disse soltanto. Io Guido, piacere.

Da quel giorno diventammo inseparabili, occupavamo sedili affiancati sul pullman, a pranzo mangiavamo le stesse pietanze, e quando mi indicava qualcosa dalla cima della ruota del Prater, io annuivo col capo mentre pensavo: Ma quanto è bella?! Che mi frega di quel punto lontano, quando ho qui vicino la cosa più bella nell'arco di centinaia di chilometri.

Probabilmente era un’iperbole, ma, se non dell’intera Austria, Elena aveva in effetti fama di essere la ragazza più bella del liceo scientifico, dove frequentava il quarto anno. Aveva tre anni più di me, che a quell’età sono tanti da scalare, e ciò rendeva più fiammeggiante la bandiera da conficcare sulla vetta. Stessa storia del passato, insomma. Solo a meriti invertiti.

Andava avanti così già da un po’, se non erano i miei occhi a cercare i suoi erano i suoi a trovare i miei, nel camminare lungo la Ringstrasse le nostre mani si univano, ma baci ancora niente. Gli altri intanto rosicavano: non andava giù che un collega di Fantozzi, un primino per giunta, se la facesse con Miss Liceo Scientifico Carlo Donegani. Cercarono perfino di passare a vie di fatto, ma alle medie avevo imparato a difendermi: per vanificare la punizione prevista era bastato un thermos di metallo, brandito come il martello di Thor.

Nulla però succedeva nemmeno con Elena, tutta quella bellezza mi intimoriva. Restava l’ultima notte. Ci accordammo per dormire assieme, avevo già preparato il piano d’azione, le cose da dire e il momento in cui tacere e accostare le mie labbra alle sue. Pare che gli sciatori facciano qualcosa di simile: mimano ogni futuro movimento del corpo dentro la testa, prima di varcare il cancelletto di partenza con un colpo di reni.

L'appuntamento era stato fissato alla fatidica mezzanotte. L'ostello viennese aveva una sezione maschile e una femminile, poco male se ci sarebbero stati altri maschi a origliare dai quattro letti a castello presenti nella camera, così la mia rivincita avrebbe fatto più scalpore. Ma che succede? I due accompagnatori, un uomo e una donna, erano probabilmente caduti preda dello stesso sentimento, e sul divano sistemato nel corridoio che divide le due sezioni continuavano a parlare a parlare a parlare.

Erano già le tre di notte, e non si erano ancora dati una mossa. Andò a finire che io passai la notte nel letto a sussurrare con Fabio – il nodo da risolvere era ora diventato: Dalla o Battisti? , il quale aveva fissato un convegno notturno con un’altra ragazza, che a sua volta aveva dormito assieme a Elena. Non so di cosa avessero parlato loro, ma la gara era terminata e lo sciatore rimasto al cancelletto.

Alla mattina il pullman imboccò l’A2 Süd Autobahn verso l’Italia, dove i telegiornali erano passati dalla P38 alla P2, il governo Forlani traballava e si preparava a subentrargli Spadolini, pochi giorni dopo Alfredino Rampi sarebbe scivolato in un pozzo artesiano. Io naturalmente feci tutto il viaggio accanto a Elena, con le cuffiette del Sony ascoltavamo entrambi una canzone di Finardi dal titolo Trappole. Non la rividi più. Nemmeno un bacino sulla guancia quale addio all'arrivo in piazzale Valgoi.

Eppure era comunque accaduto qualcosa. A Sondrio cominciai a essere fermato per strada da ragazzi più grandi di me, addirittura universitari: Ma tu sei quello che si è fatto l'Elena? Ma davvero, come ci sei riuscito? Io dicevo e non dicevo, come il dio di Eraclito mi limitavo ad accennare, lasciavo intendere. A domanda diretta mi affidavo a segni del corpo ed espressioni allusive del viso.

La voce doveva essere nel frattempo arrivata anche alle ragazze, quando andavo alle feste nei locali di paese nessuna più si rifiutava di ballare con me, qualcuna perfino si proponeva. Un’inversione dei ruoli che un po’ mi imbarazzava, ma poi mi dicevo: e quando ti ricapita più? Mi lasciavo allora corteggiare, sedurre, condurre per mano sul materasso. Il rospo era diventato principe.

Fu una breve stagione di baci, che andò a normalizzarsi in parallelo alla mia usurpata fama da play boy. Già alla ripresa scolastica di settembre tutti si erano scordati che io ero quello che a Vienna etc. etc. Così potei finalmente confessare ai miei amici che non era vero niente. Guarda che lo sapevamo già mi risposero, figurati se uno come te…

Uno come me in che senso?

Io intendevo dire che lei, e io, e poi… E cominciai a raccontare da principio tutta la storia, quella che avete appena letto.

domenica 26 ottobre 2025

Un puledro senza nome (mi ricordo 61)

Mi ricordo che il nonno aveva acquistato un puledro. Di solito commerciava in bestiame, ma quella volta, al rientro dalla Fiera di Maggio a Borghetto, nella stalla c’era anche un cavallino tutto nero. È per te mi aveva detto, è tuo.

A me la cosa aveva lasciato un po’ spiazzato: mi piacevano gli animali, ma avevo confidenza con quelli a mia misura – cani, gatti, se la nonna non vedeva prendevo in braccio un coniglio, oppure un pulcino che però non sembrava tanto contento. Ma non sapevo bene come ci si dovesse rapportare con i cavalli, e poi non ne conoscevo il nome.

Lo chiesi al nonno che alzò le spalle. Non ha un nome, daglielo tu. Di getto mi venne Tornado, così chiamava il suo cavallo nero  quando non la faceva con un fischio  Don Diego de la Vega, in arte Zorro. Ma c’era un nuovo telefilm che ne stava scalzando la popolarità, il cui protagonista era un cavallo dello stesso colore. Quasi quasi... pensai, e dopo nemmeno una settimana gli cambiai nome in Furia.

La mattina andavo a scuola e il pomeriggio passavo dalla fattoria dei nonni per trovare Furia. La vita di campagna è ripetitiva, ciclica avrei imparato più tardi a definirla, mentre a scuola si imparano sempre cose nuove. In quel periodo la maestra ci aveva parlato di Alessandro Magno, e il nome del mio cavallo mutò nuovamente in Bucefalo. Quando qualcuno mi chiedeva conto della scelta mi piaceva fare sfoggio di cultura.

Ma ormai ci avevo preso gusto, e così Bucefalo divenne in seguito Goldrake, quindi Nerone, Roberto, Geghegè… Ogni volta lo chiamavo con un nome diverso. Lui mi guardava con occhi grandi e scuri come il suo manto, ma non sembrava turbato. Semplicemente si girava al suono di qualsiasi vocalizzo, alla ricerca di una parola, una a caso, a cui aggrapparsi.

Quando provai a dare uno zuccherino a Pierpaolo – era il nome che gli avevo assegnato quel giorno – mi sorpresi nel vedere gli incisivi ampi e giallastri, e ritrassi la mano spaventato. Sei troppo grande Pierpaolo, sei troppo cavallo.

Le mie visite cominciarono così a diradare, non andavo più tutti i giorni a introdurre dell'erbetta fresca nella mangiatoia; e poi a trovare chi, non mi ero ancora risolto per il nome. Un giorno non lo trovai più nella stalla. Dov’è Black? chiesi. Il nonno fece nuovamente spallucce. Conoscendo i suoi traffici, non è difficile immaginare... Dicono che la bresaola di cavallo faccia bene a chi ha carenza di ferro.

Ma perché ne scrivo a distanza di quasi cinquant’anni? Perché si ripresenta di continuo l'immagine di un cavallo senza nome, non è statica ma mi dà dei piccoli colpetti con la fronte, come fanno gli animali per chiedere qualcosa?

Forse proprio per questo. Mi facevo vanto di conoscere la storia di Alessandro Magno, ma non sono stato in grado di replicare una grandezza più accessibile: dare un nome a tutto ciò che è vivo e palpitante, dopo che Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte, l'asciutto terra e la massa delle acque mare. O perlomeno è quanto viene detto in Genesi.

Non metterei la mano sul fuoco della citazione biblica – l'Accademia della Crusca tende a dubitare delle etimologie divine –, ma perciò diviene tanto più importante imparare a farlo da soli; come a un certo punto si impara ad allacciarsi le stringhe, si dovrà sviluppare l'arte di nominare ciò che si affaccia allo sguardo, smettendo di sbirciare l'etichetta che hanno le hostess sulla blusa. In fondo è il gesto che davvero ci rende umaniC’è una poesia di Osip Mandel'štam che continua a commuovermi, la trascrivo per intero:

Minimo con minime ali

un corpicino ruota nel sole,

minuscola nell’empireo

brilla una lente ustoria.


Un niente di zanzara

allo zenith sibila in pianto

e, fioco ronzare di càribi,

geme una scheggia nell’azzurro.

 

«Non dimenticarmi, puniscimi,

ma dammi un nome, dammi un nome!

Si sta meglio, sai, con un nome

nel profondo gravido azzurro!»

La mia colpa non è stata dunque quella di non avere saputo evitare la macellazione – probabilmente rientrava già nei piani del nonno, i contadini su certe cose vanno per le spicce – ma di avere lasciato che il puledro tornasse al “profondo gravido azzurro” senza un nome. È invece tornato al modo in cui è venuto: confuso tra gli altri cavalli neri di pelo, indistinguibile nel magma delle possibilità inespresse. Non sono solamente le vacche ad apparire uguali quando cala la sera.

Eppure bastava un nome per farlo risplendere. Non gli è stato dato, ed era un compito che spettava a me. Posso però farlo adesso, la scrittura mantiene con la memoria un rapporto ambivalente, di fedeltà e lieve scarto, reinvenzione. Per farla breve: come accidenti ti chiamo?

Ti chiamerai Fratello, è questo il tuo nome. Fratello. Non ci saranno nuovi nomi ad alimentare lo smarrimento, in quelle otto lettere la differenza che ti spetta. Da pronunciare tutte quante, mi raccomando, non valgono le scorciatoie giovanilistiche, che a nessuno venga in mente di chiamarti Fra!

Ma permettimi, di tanto in tanto, di ricordarti con il vezzeggiativo, pensando a te come a un fratellino mandato a letto senza cena. Quando l'antipasto alla vita consiste in una parola che, nella sua unicità, rifletta quanto di unico ciascuno possiede, un puledro non meno del Maestro Venerabile di una loggia massonica, con la sua ridicola clamide. A seguire qualche zuccherino, a rendere più sopportabile il morso, la sella, gli speroni nei fianchi. Per poi diventare solo la pace sazia del proprio nome.

È stato solamente un sogno (mi ricordo 60)

Mi ricordo del ricordo di un sogno, si sfilaccia ed evapora in una nuvola di immagini scomposte, bizzarre, come tutti i sogni. Col passare del tempo non so nemmeno se sia davvero avvenuto, o me lo sia messo in mente finendo con l'esserne sognato. Una mia coetanea vi partecipava, siamo stati nella stessa classe sia alle elementari che alle medie, sempre nella sezione effe. Si chiama Silvia da quanto non la vedevo? Saranno stati quindici anni, forse venti...

Probabile. Ma se voglio ritrovare una memoria nitida devo risalire al Carnevale del 1975, quarta elementare. Io mi ero presentato a scuola vestito da direttore del circo – avevo fatto un po’ di fatica a recuperare la tuba, la giubba rossa con i bottoni dorati apparteneva a mia nonna – mentre Silvia da damina del Settecento.

La gonna conteneva un’anima di metallo, se provava a sedersi faceva leva sulla sedia e si sollevava la parte anteriore, mostrando a tutti le parti intime. Corrado Lapsus veniva mandato ogni tanto in avanscoperta: con un gesto rapido alzava il grembiule scuro alle compagne, oplà. Ne ritornava una sberla sul volto impassibile di Corrado, un Buster Keaton di nove anni, al tempo stesso martire e stalker nello svelare per un attimo il candore delle mutande. Ma così era troppo facile.

Alla fine, dopo alcuni tentativi, Silvia decise di rimanere in piedi. Noi con i gomiti appoggiati sui banchi a sbranare chiacchiere e tortelli; lei al centro della classe come un monumento, un’installazione artistica, un capolavoro. Bella è sempre stata bella, per quanto, a volte, il tempo somigli ai fanatici religiosi. Gente barbuta che abbatte le statue di un dio disallineato al presente. Mi piacerebbe rivederla.

La mattina successiva al sogno ho il richiamo della vaccinazione anti Covid. Ore 10.00, presentarsi alla 9.50 con codice di prenotazione UNLXNSBIFRMRMYC. Portare un documento identificativo in corso di validità, continua l'SMS di conferma, e la tessera sanitaria.

Quando è il mio turno entro nel box e trovo l’infermiera di spalle; sta aspirando con la siringa un intruglio che già immagino scorrere minaccioso nel mio sangue. Si gira e mi chiede: “Spalla destra o sinistra?”

“Sinistra direi, ma tu…?”

“Sì, mi hai scoperta". Con queste cose sulla bocca", e indica la mascherina dietro cui sta forse sorridendo, "non ti avevo riconosciuto subito nemmeno io. Come stai, Guido?”

“Bene, sì, insomma… E tu, abiti sempre a Sondrio, ti sei sposata, hai figli?”

Non presto attenzione alle risposte mentre parla – eppure mi interessa davvero sapere, riempire l'album dei ricordi con le figurine mancanti – ma sto pensando se dirglielo o meno, e nel caso come.

“Silvia lo sai che questa notte ti ho sognata” la interrompo in una sola rapidissima emissione di fiato, si ingolfa in quella cosa che tengo anch'io sopra la bocca. Replico allora il suo gesto e punto l'indice alla mascherina, fingendo di attribuirgli la mia goffaggine. Sembra l'inizio di una canzone di Luca Carboni.

“Davvero?!” risponde lei con un tono di sorpresa che appare accentuato e artificioso, quasi a nascondere una notizia che già conosceva. 

“Sì, ma non preoccuparti: non facevamo cose strane… Eravamo vestiti. Non si vedevano le mutande, come quella volta a Carnevale.”

Speravo di farla sorridere nuovamente, ma resta seria, concentrata sulla siringa. Si è scordata dell’episodio. Provo a raccontarglielo ma mi anticipa: “Fa lo stesso, andava bene uguale."

Una collega sopraggiunge e le domanda qualcosa. Risponde. Quindi mi invita, sempre a gesti, ad abbassare la spallina della maglia di caldo cotone, e continua: "Quello che facevamo facevamo. Tanto si trattava di un sogno, no?”

"Sì, era un sogno. È stato solamente un sogno." 

Mi infila l’ago nella spalla senza preavviso, poi preme lo stantuffo con una delicatezza che sembra contraddire l'impeto iniziale, i ballerini nel tango fanno qualcosa di simile. Non sento nulla. Preferisco quando le iniezioni fanno male, mi sembra che per stare bene si debba soffrire un po', non tanto, solo un po’. Al termine mette un cerottino come quelli che ricoprivano le ginocchia dei bambini degli anni Settanta.

“Posso andare?” dico.

Mi fa un cenno di assenso con il capo.

“Allora ciao, Silvia.”

“Ciao Guido.”

“…”

“Aspetta” mi dice quando sono già arrivato alla tenda del box, “nel sogno eravamo come adesso, sì, insomma, vecchi… o come una volta?”  

sabato 25 ottobre 2025

Ya tenemos todo, o su quando un uomo muore

Quando un uomo muore arriva un altro uomo

a cambiare l'etichetta del citofono,

scade il suo Bancomat ma non la carta punti,

il supermarket continua a segnarli

sulla tessera dell’uomo morto:

Ovomaltina, salmone, zucchine,

totale trentasette punti.

Trascorsi pochi mesi, i figli

li riscattano avendo una terrina

decorata con l’immagine della Pimpa.

Volete un accendino, un braccialetto?

domanda un nero nel piazzale.

Non ci interessa, grazie, abbiamo già tutto.

Quando un uomo muore l’orologio

(purché non sia placato in oro)

passa al nipote più bravo a scuola,

i maglioni vengono donati alla Caritas

e le mutande rimangono nei cassetti;

ma poi vengono buttate 

assieme all'etichetta del citofono.

Cosa ne facciamo del cane?

È un cagnetto fulvo, meticcio,

ha smesso di mangiare e si fa magro magro.

Un tempo si ingozzava di crocchette

e al suono del citofono abbaiava,

difendeva il territorio dai ladri,

dalla sventura, dal male.

Quando un uomo muore

se qualcuno prova a citofonare

risponde una voce di donna

e dice in una lingua diversa e ostile:

No me importa, gracias, ya tenemos todo.

mercoledì 22 ottobre 2025

Do The Right Thing

A distanza di una settimana posso finalmente confessarlo. Il testo che ho pubblicato nei giorni scorsi su Facebook, con titolo Pregiudizi, non era un post per così dire normale, ma un esperimento meta-narrativo.

Mi sono detto: proviamo a scrivere qualcosa che contenga il maggior numero di "nemici" (nella fattispecie erano sei: più nemici che brevi paragrafi), e vediamo se quel che penso dei social corrisponde a verità...

Non è difficile trovare dei nemici – in ciò il mio post era veritiero –, e sputargli addosso è il gesto più comune e spontaneo. Dopo pochi secondi la saliva si è riformata, e si può sputare di nuovo.

Dalla ricezione ho avuto conferma al mio sospetto, ottenendo una quantità di letture, commenti e like ben superiori alla mia media del periodo, comunque contenuta. Avevo fatto tombola.

Ma perché l'esperimento fosse completo mancava la prova inversa, e perciò, trascorsi pochi giorni, ho pubblicato un nuovo scritto. Si intitola Angeli e diavoli e rientra nel ciclo che ho chiamato delle iniziazioni.

Si tratta di brevi racconti a sfondo biografico, accomunati dall'incipit mi ricordo. Le memorie riguardano circostanze in cui la vita è sembrata essere meno avara di senso, concedendo un tassello del suo segreto. Un po' come in certi quiz televisivi dove si acquista una vocale.

Prevedevo, a naso, l'esito, e in effetti ci ho preso di nuovo: Angeli e diavoli è stato lo scritto meno gradito nello stesso lasso temporale, ma potrei forse dire da sempre. Eppure era da tutti punti di vista superiore al precedente, e non mi sto lodando e sbrodolando da solo. Era l'altro a essere modesto.

Nel passato era già capitato qualcosa di simile: emozioni primarie (bambini o animali feriti), lutti, sarcasmo, semplificazioni avevano sempre fatto lievitare l'audience. Anche ammiccamenti sessuali, che non sono il mio forte. Ma soprattutto fare branco e mordere. Questa era però la prima volta che disponevo le alternative con malizia.

Ciò mi conferma che i social, per molte ragioni, rappresentano un ribaltamento prospettico; o forse sono la radicalizzazione di un mondo già di suo capovolto. Sballato.

Alcune di tali ragioni mi pare di comprenderle, perfino di condividerle con una parte profonda di me. Se non altro viene meno l'ipocrisia, e dunque va bene così. Scriveva Baudelaire a introduzione dei Fiori del male: “Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!”

Anzi, in un certo senso va pure meglio: l'insuccesso social rappresenta un prezioso indicatore, almeno quanto il successo letterario. Sono entrambi fari che orientano la rotta in assenza di stelle. Bravo Guido mi dirò, oggi sei quasi riuscito a renderti invisibile. Ma puoi fare ancora meglio.

Solo quando avrò realizzato il post perfetto, quello da zero like, saprò di avere fatto la cosa giusta. E potrò abbandonare una parola che si vuole pubblica per auto incoronazione, alla maniera di Napoleone con la Corona Ferrea: “Dio me l’ha data, e guai a chi me la tocca!”

Sì, in fondo desidero solo andarmene – da dove? Forse da tutto ciò che Dio ha delegato all'uomo di malnominare, quando ogni congedo implica la speranza di un vocabolario più degno – senza sbraiti e commedie, in punta di piedi.

Andarmene come Chance il giardiniere nella sequenza conclusiva di Oltre il giardino. La bombetta in testa. L'ombrello chiuso in pugno. Camminando sull’acqua finalmente quieta di uno stagno.

domenica 19 ottobre 2025

Pregiudizi

È presente in me un pregiudizio duro a morire: penso che le persone che mi sono simpatiche debbano avere anche ragione, e viceversa. Certo, il concetto di ragione è ampiamente discrezionale (gli americani l’hanno compreso, e hanno una magistratura elettiva e un diritto con una forte componente giurisprudenziale), ma è una bussola preziosa che ci aiuta a orientarci nel mondo, evitando di andare a sbattere.

In politica, ad esempio, il mio pregiudizio funziona benissimo: Salvini mi è antipatico, e trovo che abbia anche torto. Capezzone ancora più antipatico, Vannacci, Giuliano Ferrara, la Santanché, questa la top five delle mie antipatie; ma potrei continuare. Tutta gente che vedo sprofondare nelle sabbie mobili del torto marcio.

Negli ultimi tempi il pregiudizio ha però cominciato a scricchiolare. Già con Berlusconi – simpaticissimo, e però quanto al resto… – qualche dubbio mi era venuto, ma ora con Francesca Albanese è definitivamente cascato il castello di carte.

Come si fa, mi chiedo ogni volta che Albanese compare in televisione, ad avere quella supponenza, quel sotuttoio, quell'indice perennemente levato? Non la pensi come me, e allora non vali un cazzo. Anzi sai cosa ti dico: me ne vado! La palla è mia e non si gioca più.

Questa è Francesca Albanese, dai è lì da vedere. Eppure non ho ancora sentito una sua affermazione con cui non sia almeno un po' d’accordo. Continuerà a essermi antipatica, intendiamoci, ma devo ringraziarla per avere estirpato il pregiudizio. Grazie Franci, adesso so finalmente distinguere le persone dalle loro idee.

venerdì 17 ottobre 2025

Angeli e diavoli (mi ricordo 59)

 

Mi ricordo di un treno e di un campo da minigolf. È curioso che i due ricordi si presentino accoppiati, oltre all’incongruenza dell'oggetto sono separati da oltre vent’anni. Partiamo con ordine, è il 1970, in Italia un referendum ha reso possibile il divorzio, Adriano Celentano e Claudia Mori vincono il Festival di Sanremo con Chi non lavora non fa l'amore. Tutte cose che sfuggono a me e a mio cugino Paolo, siamo molto più interessati al minigolf di Bormio. Come al solito ci ha accompagnati il nonno Pinin, se lo perdiamo di vista su via Roma basta guardare in alto  ma non troppo in alto  e cercare il suo cappelletto di velluto a coste marrone.

Una delle nostre buche preferite presenta una configurazione a L. Il tratto di partenza è lineare, si deve indirizzare la pallina verso una specie di castello con un ampio foro d'accesso, da cui fuoriesce, dopo una curva a gomito non visibile dall'esterno, per dirigersi allo slargo conclusivo. Da un punto di vista tecnico non presenta particolari difficoltà, e perciò è stata collocata all'inizio del percorso. Tutto facile, a meno che non si mettano di mezzo due guastafeste di cinque e quattro anni – Paolo ed io.

Sufficientemente piccoli da intrufolarci attraverso il foro anteriore, nascosti nel ventre del castello intercettiamo la pallina, per rigettarla, in apparente barba a tutte le leggi della fisica, nella stessa direzione da cui è arrivata. Un passatempo che allora ci faceva molto divertire, un prequel di Scherzi a parte: il giocatore assumeva l'espressione di un bracco quando non capisce qualcosa, e storce il capo dalle lunghe orecchie pendule. Ma non doveva uscire dall'altra parte...?

Stacco. 1992. A vincere Sanremo quest'anno è Luca Barbarossa con Portami a ballare. Sulla macchina del padre di Vitto, una Golf turbo diesel bianca, noi però ascoltiamo un vecchio album di Francesco De Gregori. La meta del viaggio è scivolata nell’oblio, ma la strada è la statale 36; d'altronde, altre strade qui non ci stanno. Appena fuori Sondrio si trova Poggiridenti, un tempo si chiamava Pendolasco ma Mussolini lo trovava un nome poco virile, e così fu sostituito in uno slancio di buonumore, per quanto i poggi siano il ripido versante retico. A Poggiridenti c’è un passaggio a livello. Il passaggio a livello è chiuso. Dunque sta arrivando il treno, e fin qui tutto normale. Se non che tra le sbarre abbassate è presente un'auto.

Io e Vitto ci guardiamo, suo padre non c'è, ha messo solo il mezzo e il gasolio, a volte con i figli va così. Boh, e proseguiamo accompagnati dalla voce nasale di De Gregori, la canzone riprodotta dall'autoradio è Buffalo Bill. Ma dopo poco ci guardiamo nuovamente – forse è meglio tornare indietro a vedere, che dici?

Si tratta di una Fiesta verde pisello (mi sono sempre chiesto quale colpa debba espiare chi acquista auto e abiti verdi), al posto di guida troviamo un anziano completamente ubriaco: ha posato il capo sul volante e sta ronfando alla grossa. Stranamente, all'interno del veicolo non c'è odore di vino, ma di salsicce. La situazione ci è comunque chiara, resta solo da capire chi lo fa, mentre l'altro prova a risvegliare l'ubriaco e chiama soccorso. Ci penso io dico con tono solenne, e mi avvio lungo i binari in direzione Tirano. Dallo sferragliare appena udibile ho intuito che il treno proviene da lì.

Nei film americani sulla Grande Depressione la gente cammina per miglia lungo binari che volgono al tramonto. In realtà è scomodissimo procedere nell'alternanza di transenne e massicciata, ma per fortuna, dopo nemmeno cinquanta metri, compare il treno all'orizzonte. A quel punto divarico braccia e gambe alla maniera dell'uomo vitruviano, facendo ampi segni al conducente. Possiamo tornare a vederla come un film, e però di Sergio Leone. Uomo contro treno.

Che cavolo, avrà pensato quello, io sono tonnellate di alluminio ad alta resistenza, acciaio inox, klevlar, e tu una semplice X: spostati! e comincia a fischiare. Ma insisto. No, sei tu che ti devi fermare, sono io, sei tu…  Un tira e molla che comincia a farsi rischioso – si trova ora alla distanza da cui il cacciatore prende la mira per sparare al bisonte –, quando si sente un acuto stridore di freni, ricorda il suono del gesso sulla lavagna. La motrice si arresta a una manciata di passi dal mio corpo, il cacciatore si è convertito in bisonte che a sua volta è divenuto mansueto. Lo fisso con occhi increduli.

Ho fermato un treno. Cazzo, ho fermato un treno!

Ma torniamo al minigolf, se ci pensiamo il gesto è il medesimo: esiste una direzione, possiamo anche chiamarla destino, e due marmocchi che, messi uno sopra l'altro, non arrivano alla statura di Dino Meneghin, l'hanno invertito. Un destino di poco conto, d’accordo, con cinquecento lire ci facevi diciotto buche, ma comunque un destino. Nel caso del treno il destino sarebbe invece stato drammatico, il passaggio a livello si trova dopo un rettifilo a cui segue una semicurva preceduta da un capannone a ridosso dei binari, era impossibile prevedere la presenza della Fiesta. Un botto certo, che avrebbe offerto inchiostro ai giornali locali per almeno due settimane.

Invece ogni cosa è rimasta com'era, nemmeno una tinteggiata all'orribile verde pisello della carrozzeria, le salsicce sul sedile posteriore, la vita è rimasta vita. Per quanto la multa che, in seguito, si è preso l’ubriaco, sarà stata talmente salata da impegnare i restanti anni per ripagarla. Ma non è vero che la locomotiva ha la strada segnata – lo continua a ripetere Francesco De Gregori, tutto è avvenuto così in fretta che la canzone non è ancora conclusa – mentre il bufalo può scartare di lato e cadere.

Macché, anche la locomotiva può scartare di lato e cadere, oppure può essere fermata dalle braccia mediamente muscolose di un ventenne, e le palline da golf possono percorrere una direzione inversa all’abbrivio. Nessun programma determinato dall'equazione che combina le condizioni iniziali, per dirla forbita. Ma neppure libero arbitrio. L'esito di un semplice giro di minigolf non è deciso dal giocatore, non interamente almeno: bastano due diavoletti nascosti in un castello a boicottarne i piani; e nella sorte del proprietario della Fiesta sono intervenuti due angeli, di cui facevo sempre parte. Angelo e diavolo allo stesso tempo. Prima che le cose si manifestino, coppie ed opposizioni tramano confuse.

Resta da capire chi adesso siano gli angeli a fermare i treni in rotta di collisione – di norma nemmeno ce ne accorgiamo, anche noi ronfiamo alla grossa – e i diavoli a risputarmi puntualmente in faccia la pallina. Io con la mia mazza da minigolf sempre più arrugginita, ma non demordo, la rimetto in posizione e cocciuto tiro e ritiro e, se non bastasse, lo faccio ancora. Mentre la bocca spalancata del castello sembra farmi la linguaccia.